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Mercoledì, 24 Aprile 2024
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Coronavirus, il racconto di una dottoressa in prima linea: "Cosa preoccupa di più i pazienti"

Madre di un bimbo piccolo, L. ha deciso di accettare la proposta di lavorare in un reparto Covid allestito in un ospedale di Roma. La sua esperienza in un’intervista a Today

Molti medici in tutta Italia hanno risposto all’emergenza legata al coronavirus, mentre negli ospedali venivano allestiti reparti dedicati esclusivamente al trattamento di pazienti affetti da Covid-19, con nuovi posti letto e necessità di avere altro personale a disposizione. L., infettivologa romana, madre di un bambino di nemmeno un anno, è una di quelli che hanno risposto alla “chiamata” e ora è impegnata nel reparto Covid di un ospedale pubblico della Capitale. Tra un turno e l’altro, in attesa di rientrare in ospedale per “fare la notte” dopo aver passato un po’ di tempo in sicurezza con il suo piccolo, L. ha raccontato a Today cosa significa lavorare a contatto con pazienti Covid.

Dottoressa, perché ha accettato di lavorare in un reparto Covid?

Ho detto sì perché nel momento in cui una competenza specifica come la nostra è diventata molto importante per sostenere l’attività clinica e l’assistenza specialistica a questi pazienti ho voluto mettere in campo anche la mia disponibilità nei confronti dell’emergenza sanitaria. Da infettivologo mi sembrava quantomeno doveroso mettermi in prima linea in un’emergenza di carattere infettivo.

Cosa succede in un reparto Covid?

L’attività medica e infermieristica ricalca quella che è la routine di un reparto qualunque. Con la differenza di dover convivere con i dispositivi di protezione individuale che rendono un po’ più complessa l’attività, perché oggettivamente indossare per lungo tempo mascherine, camici, tute idrorepellenti e calzari rende la situazione più scomoda e poco “traspirante”… Però in linea generale si tenta di vivere l’attività di reparto nella maniera più convenzionale possibile, al di là delle difficoltà oggettive legate ai dispositivi di protezione e all’isolamento che deve essere mantenuto all’interno dei reparti ai fini di proteggere i pazienti e il resto della struttura sanitaria. Sono un po’ più difficoltosi i passaggi in entrata e in uscita, ma se le procedure aziendali sono ben rodate sono problemi “ovviabili”.

Quali sono le difficoltà più grandi che vi trovate ad affrontare?

Sicuramente la gestione del paziente con infezione da Covid-19, che conosciamo poco anche noi perché è un problema sanitario che è emerso da pochi mesi e quindi tutta la comunità scientifica è molto attenta e in attesa di avere più risultati e numeri possibili per caratterizzare al meglio la patologia in sé. Per fortuna c’è una ampissima condivisione di dati da parte di tutti gli operatori sanitari, diffusa ovunque, sia in Italia sia nel resto del mondo. Quindi, condividendo per fortuna molte informazioni con i colleghi sparpagliati per il resto del territorio, diventa un po’ più facile sia farsi un’idea personale sia raccogliere dati per ottenere delle nozioni di ordine epidemiologico, clinico e diagnostico ma anche di terapia sicuramente più robuste e in termini soprattutto brevi, perché l’emergenza è adesso e non possiamo aspettare di raccogliere i dati o di avviare sperimentazioni in maniera “rilassata”. Bisogna essere più incisivi e in tempi più stretti. L’avere poi a che fare con una patologia poco nota e che può avere un’evoluzione in senso peggiorativo anche molto rapida mette un carico di tensione non da poco, legato anche al fatto che c’è tantissima attenzione di fronte a un problema sanitario di carattere globale e così impattante come non si era mai visto in precedenza in tempi abbastanza recenti. Questo sicuramente è un fattore di stress non indifferente. In più le difficoltà legate al dover somministrare terapie che anche noi conosciamo da poco, il che ti impone anche di dover ragionare eticamente in maniera diversa.

Ricorda il primo giorno in reparto? Cosa ha pensato?

Lo ricordo benissimo. Ho preso servizio nel momento in cui attivavano i primi posti letto per l’emergenza Covid. Lo ricordo come un giorno in cui c’era una grande emozione legata anche al fatto di poter partecipare a un evento comunque importante per la struttura in cui lavoro ma anche per la mia città, nel senso più ampio. L’avvio dei primi ricoveri è stato un momento segnante, che ci ha dato anche la carica per affrontare un periodo che sapevamo sarebbe stato difficile ma in cui il nostro contributo avrebbe portato quantomeno un apporto importante alla causa generale. Il mio primo pensiero è stato a metà tra la paura e l’essere orgogliosa di far parte di tutto questo.

Che tipo di rapporto si instaura con i pazienti? In cosa è diverso da quello con chi affronta una degenza ordinaria?

Sicuramente è un rapporto più intenso. Un paziente che soffre di una patologia respiratoria è già un paziente sofferente perché la sensazione di mancanza di respiro e affanno è una delle più brutte che una persona possa sperimentare. In più quello che ormai è un po’ lo spauracchio del momento, ossia peggiorare e finire in terapia intensiva, è sicuramente un altro fattore che spaventa non poco il paziente. Sono le cose che maggiormente li preoccupano. Ma è soprattutto l’assenza delle persone care intorno che incide di più dal punto di vista psicologico sui pazienti. In questo noi cerchiamo, ognuno con la propria affettività e le proprie capacità emotive, di dare un supporto anche in questo senso, proprio perché la mancanza di contatti diventa complessa non solo perché c’è la mancanza di possibilità del paziente di mettersi in contatto in maniera più frequente con i propri cari, ma anche perché loro stessi spesso si trovano a non potersi muovere da casa.

Qual era la situazione quando è arrivata e come è oggi?

La situazione si sta chiaramente modificando, anche perché si innescano delle routine, il team diventa più rodato, il lavoro più agevole e fluido. Al momento attraversiamo una fase in cui stiamo aspettando un calo deciso dei contagi e quindi anche noi viviamo questo momento con trepidazione, perché al di là di tutto la voglia di voler vedere un miglioramento in questa fase epidemica è fortemente condivisa anche dal personale sanitario. Oggi vediamo una fase sicuramente più stabile all’interno del nostro reparto e in più iniziamo anche noi ad avere una nostra esperienza personale all’interno dei reparti Covid e quindi, dopo l’iniziale tensione legata a una situazione nuova, adesso prevale di più la voglia di far sempre meglio in attesa che arrivino tempi migliori.

Sui social ha condiviso una foto di un momento di “relax” insieme a un collega, mentre entrambi indossate mascherine e tute protettive. Si riesce anche a scherzare in queste situazioni?

Beh sì, si deve anche scherzare in queste situazioni perché la difficoltà anche a livello psicologico ed emotivo le subiamo anche noi! Al di là di aver di fronte un altro essere umano che soffre, che non è mai facile da digerire anche dopo anni di esperienza clinica, siamo anche noi sanitari che spesso e volentieri dobbiamo adattarci a questa situazione e vivere anche noi la nostra quarantena all’interno dei nuclei familiari. Io ho un compagno e un bimbo piccolo, che per mia fortuna in questo momento è accudito dai nonni. Vivo anche io con difficoltà il fatto di svolgere un ruolo professionale in questo momento che potrebbe mettere a rischio le persone care e quindi per ridurre al minimo i rischi di esporre loro a un eventuale contagio al momento tengo le distanze dalla mia famiglia. Ma questo è sicuramente una spinta in più per fare bene affinché con l’aiuto di tutti nel mantenere le misure di isolamento e di distanziamento sociale si possa vedere presto la fine di tutto questo. In queste situazioni, dicevo, si deve scherzare. Tenere alto il morale della truppa è sicuramente importante. Il lavoro di team è bello ed è fondamentale soprattutto per questo, perché ci si riesce a sostenere professionalmente e umanamente, ed è importante che ci sia il momento dello svago e dello scherzo, perché altrimenti non si avrebbe lo spirito giusto per essere anche di supporto psicologico per i pazienti che abbiamo sotto le nostre cure.

Come è cambiata la sua vita lavorando nel reparto? Come si relaziona con il suo compagno e con suo figlio?

Li sto tenendo distanti ma per fortuna riesco anche a ritagliarmi dei momenti - in sicurezza - in cui con la mascherina chirurgica posso stare con la mia famiglia. Sono molto fortunata: tanti miei colleghi non possono farlo perché spesso devono allontanarsi molto dai nuclei familiari e non hanno questa possibilità di condivisione con i propri cari.

Ci sono stati diversi casi di gesti di generosità e solidarietà nei confronti del personale sanitario. A voi in reparto è capitato? Atteggiamenti invece meno piacevoli?

Ci sono stati tantissimi gesti di solidarietà nei nostri confronti, a partire dalle donazioni alla struttura fino a donazioni da parte di parenti di pazienti, che ad esempio ci hanno fornito di gel disinfettante, come pure ringraziamenti e gentilezze durante i colloqui con il personale sanitario. Intorno a noi, per fortuna, al momento c’è solo un grande affetto e un grande sostegno da parte delle famiglie dei nostri pazienti. Non ci sono mai stati atteggiamenti poco piacevoli o momenti di scontro con i familiari. Si è cercato di dare una mano anche nelle situazioni familiari contingenti che ruotavano intorno ai nostri pazienti, come consigli o rassicurazioni nel momento in cui i familiari ponevano dei dubbi o delle perplessità circa la situazione del proprio caro ricoverato nella nostra struttura. Devo essere sincera, per noi al momento c’è soltanto un ritorno positivo da parte delle famiglie dei nostri pazienti.

Qualche giorno fa sui social ha commentato duramente l’emendamento, poi ritirato, al decreto Cura Italia a prima firma di Matteo Salvini sulla responsabilità penale dei dirigenti medici e amministrativi legata all’emergenza Coronavirus. Come professionisti del settore sanitario vi sentite tutelati?

Quell’emendamento poi ritirato della Lega, ma ce n’erano stati anche altri a firma di altri partiti più o meno analoghi a questo, fa riferimento purtroppo a una situazione che ha radici ben più profonde rispetto all’emergenza Covid, quella cioè delle rivalse nei confronti del personale sanitario, ossia le cause per colpa medica. Un qualunque cittadino ha sicuramente diritto ad essere risarcito laddove sia stata lesa la sua persona e su quello nessuno vuole sentenziare. Tutti abbiamo qualche caro che è stato, è o sarà in condizioni di difficoltà e ha diritto a un’assistenza sanitaria congrua ed efficace dove possibile per il miglioramento della salute e della qualità di vita. In quest’ottica però diciamo che il personale sanitario deve esser messo in condizioni di svolgere al meglio la propria professione. La mia professionalità messa al servizio del cittadino deve essere efficace e laddove io non sono protetta o non sono messa nelle condizioni di poter lavorare in maniera serena è chiaro che queste condizioni vengono meno. Il problema è soprattutto le modalità con cui si stanno mettendo in campo in questo momento i professionisti del settore sanitario. Più che noi, mi viene da pensare ai colleghi che lavorano sul territorio. Penso ai medici di medicina generale, ai pediatri di libera scelta, a chi lavora in continuità assistenziale. Sono colleghi che hanno avuto grosse difficoltà nello svolgere la professione perché carenti di dispositivi di protezione individuale. Anche questo è un dato che ci deve fare pensare. Circa un centinaio di professionisti del settore sanitario sono morti dopo aver contratto l’infezione. Questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che noi, come operatori del settore, abbiamo messo in campo tutto, anche noi stessi, per fornire ai cittadini la migliore assistenza sanitaria possibile. In alcune realtà però purtroppo possono emergere delle carenze del settore sanitario che sono il risultato di politiche non proprio orientate alla tutela della sanità pubblica.

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