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Sabato, 20 Aprile 2024
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Coronavirus, le psicologhe vicine al personale sanitario e ai famigliari in lutto: “Così li aiutiamo nell’emergenza”

Le testimonianze di Carlotta Ghironi e Sonia Ambroset, psicologhe del servizio di counselling telefonico dell’associazione VIDAS “Distanti ma non soli” nato per supportare quanti si trovano ad affrontare la vastità di emozioni suscitate dall’emergenza in corso

Li chiamano ‘eroi’, ma i medici e gli infermieri impegnati nell’emergenza coronavirus non hanno nulla della natura semidivina a cui la  mitologia faceva riferimento. Coloro che affrontano in prima linea la pandemia negli ospedali sono persone in carne, ossa e fragilità, esseri umani che prima ancora di lottare contro un nemico invisibile, restano accanto alle vittime di quell’avversario, stringono mani e infondono il coraggio di affrontare ciò che sarà sorridendo con gli occhi scoperti da mascherine.

Ed è in un tale contesto di urgenza e di costante incertezza che si sperimenta tutto il ventaglio delle emozioni e dei sentimenti possibili. Lo provano loro, tutti i professionisti e i lavoratori impegnati nelle strutture sanitarie, ma anche i famigliari dei pazienti che non possono assistere il proprio caro con continuità e stargli vicino nelle ultime ore di vita, restando perciò afflitti da un dolore così dilaniante da risultare complesso da elaborare soprattutto in caso di un’eventuale perdita. Questa è una prova difficilissima per chiunque si trovi travolto dal dramma Covid-19, una condizione a cui Vidas - associazione impegnata dal 1982 nell’offrire assistenza sociosanitaria a persone con malattie inguaribili - sta dedicando una specifica attenzione con un pronto intervento psicologico messo a disposizione di chi affronta l’oneroso carico di emozioni.

Il servizio si chiama ‘Distanti ma non soli’ ed è gestito da un team di sei psicologhe esperte sia nel sostegno al lutto sia nell’affrontare il ‘burnout’, ovvero lo stress lavorativo che determina un logorio psicofisico ed emotivo. Due i numeri di telefono nazionali a cui è possibile rivolgersi: uno per gli operatori sanitari (344 0948447, dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 19, e il sabato, dalle 10 alle 17) e uno per i parenti dei malati scomparsi a causa del coronavirus, malvagio persecutore che nega anche una carezza come estrema consolazione a chi va via e a chi resta ed è costretto a fare i conti con la sua assenza.   

A Today la testimonianza di due psicologhe impegnate nel servizio: Carlotta Ghironi che si occupa di fornire assistenza agli operatori sanitari, e Sonia Ambroset, impegnata a fornire il suo aiuto ai famigliari delle persone in lutto. Racconti importanti che offrono un punto di vista nuovo sull’emergenza vissuta con il cuore e con la mente dei suoi protagonisti.

Carlotta Ghironi: “Durante l’emergenza le emozioni tendono a spostarsi anche a livello fisico”

- Dottoressa Ghironi, quanti operatori sanitari stanno chiedendo l’aiuto del servizio di supporto psicologico?

Di chiamate ne stiamo ricevendo tante da tutta Italia, in particolare dalla Lombardia, anche da parte dei famigliari degli operatori sanitari che cercano di capire come sostenerli in un momento di forte pressione. Ma ci aspettiamo che le telefonate aumenteranno quando il livello di stress del periodo si abbasserà. E’ più probabile, infatti, che gli operatori si rivolgano allo sportello nel momento in cui l’emergenza inizierà a calare: effetto normale questo, perché è un periodo in cui sono più concentrati sugli altri che su se stessi, il livello di presenza e impegno è molto alto e si mette da parte se stessi per aiutare gli altri. Arriverà poi un momento in cui corpo e la mente chiederanno di avere attenzione.

- Qual è il disagio più forte che viene manifestato?

Spesso si tratta di disagi somatizzati come difficoltà a dormire, forte agitazione, irritabilità, tensioni su cui ci chiedono  un aiuto sul modo di gestirle. Le emozioni tendono a spostarsi anche a livello fisico in un momento di emergenza come questa.

- Quanto pesa la specificità di un’emergenza come questa che costringe medici e infermieri a ritrovarsi da soli con il paziente e la sua sofferenza nelle ultime ore della loro vita?

Pesa tanto, perché si tratta di gestire un momento, quello della morte, che non tutti gli operatori erano abituati a fare o erano chiamati a fare. Ma forte per loro è anche trovarsi a gestire l’imprevedibilità di una situazione sconosciuta che, come tale, porta molto stress. Altro elemento che influisce molto è la paura di contagiare la malattia, ma anche e soprattutto di esserne portatori, di trasmetterla ai propri famigliari: chi chiama mi riporta spesso questo intreccio tra dimensione privata e lavorativa che fino ad ora non era mai stato così stretto, dato che prima di oggi l’ambito famigliare e quello lavorativo comunicavano sì, ma a discrezione della persona. Subentra un forte senso di colpa e di responsabilità per quello che si fa, si è potuto fare e per quello che magari non si è riusciti a fare.

- Quanto sta servendo loro il vostro aiuto di ascolto?

Molto: già la possibilità di raccontarsi, a livello clinico, mette un ordine. Alla fine della telefonata le persone mi dicono di sentirsi più sollevate. Poi a volte mi richiamano e si nota come il loro livello di attivazione sia diverso. Fermarsi un attimo è importante, e non significa smettere di lavorare, ma prendersi cura dello strumento che noi siamo.

- Si sente tanto attribuire il termine di “eroi” a medici, infermieri e personale sanitario: quanto effettivamente questa definizione è calzante e quanto, in effetti, queste persone si sentono tali?

Si sentono più esseri umani responsabili, che è diverso. L’eroe è quello che ha un superpotere. E’ importante di certo riconoscere l’importanza del loro lavoro in questo momento. A volte hanno più bisogno i pazienti di vedere gli operatori come eroi, ma loro non si cariano di questa immagine e rimangono un po’ più con i piedi per terra.

Sonia Ambroset: “Per i parenti dei defunti l’assenza di un rito funebre è fonte di grande sofferenza”

- Dottoressa Ambroset, che bilancio può trarre fino ad oggi sull’attività del servizio offerto ai parenti dei defunti a causa del coronavirus?

A dodici giorni dall’apertura della linea telefonica avvenuta il 4 aprile, ho raccolto 190 chiamate da tutta Italia, soprattutto dal sud e il disagio più forte riscontrato fino ad ora è sicuramente quello di aver visto il proprio caro andare in ospedale e di non averlo potuto accompagnare, di non essere stato con lui nella fase che poi si è rivelata l’ultima della sua vita. Questa è una cosa che lascia le persone con la percezione di aver perso un tempo fondamentale. La solitudine che attribuiscono alla mancanza del parente, in realtà, è la stessa che sentono loro dopo la morte della persona cara, perché non c’è la possibilità di una condivisione umana che è fatta di compagnia, non c’è un abbraccio.

- Si riferisce all’impossibilità condividere il dolore per la perdita, all’assenza di funerali…

Sì, ai riti di commiato, siano essi laici o religiosi: se ne sente la mancanza. Ma la sofferenza è anche successiva, quotidiana, perché non si può stare insieme come famiglia, come parentela allargata, come amici… Banalmente, manca, per esempio, la cena tutti insieme in cui si ricorda la persona che non c’è più, rito collettivo che soprattutto al centro sud è ancora molto in vigore.

- Qual è, se c’è, una peculiarità che sta riscontrando in questo contesto specifico?

I genitori anziani che vedono morire i figli: fino ad ora, due, tre signore che hanno superato gli 85 mi hanno chiamato per raccontarmi della morte dei figli 50enni.

- Immaginiamo si avverta un forte senso di colpa… 

Sì. Già succede normalmente quando un genitore perde un figlio, ma diventa insostenibile in questa situazione in cui ci si aspetta che siano i soggetti più fragili a morire. Si acuisce quello che di solito si vive nel lutto e fa sperimentare un contatto violento con il dolore. E’ una morte traumatica e chi resta ha bisogno di tempo e condivisione.

- E’ un ruolo importante e molto delicato il vostro… Che si dice in questi casi?

Per prima cosa noi ascoltiamo e l’ascolto che chiamiamo ‘attivo’ è già di per sé un aiuto. Avere qualcuno che non ti conosce e ti ascolta, non ti giudica, non ti interrompe, non si spaventa delle tue paure è di per sé terapeutico. Io chiedo sempre: ‘Cosa la tiene in piedi in questo momento? Quali sono le cose che le danno un minimo di speranza e di tolleranza del dolore?’ La persona, allora, trova da sola le capacità naturali che possiede ed è una scoperta da parte di chi soffre perché ritrova in sé delle risorse.

- Quali sono le risorse più comuni?

C’è chi ha una profonda fede religiosa che in questi casi diventa supporto, ma anche chi ha una certa rabbia in questo senso perché avverte un certo senso di ingiustizia, per cui il vissuto rispetto alla fede è ambivalente. Altro supporto è mantenere i contatti, per esempio con i nipoti che creano vitalità. Importante è anche costituire dei riti in casa, come guardare le foto della persona scomparsa; poi c’è anche chi scrive ciò che sente e che vive, cosa che consiglio sempre: la scrittura aiuta molto, più della lettura. Quello che cerchiamo di trasmettere è l’importanza  dell’affetto per se stessi: non bisogna essere forti e imporsi di superare il lutto in un mese, perché spesso nella nostra società c’è la paura di stare con il dolore. Noi invitiamo a guardare il dolore come qualcosa con cui si può entrare in contatto: si può piangere. Ci vuole un tempo che va attraversato e in questo tempo noi cerchiamo di esserci e di aiutare a dare un occhio alternativo alle cose. Anche una voce amica in questo momento fa bene. Per noi ascoltare il dolore degli altri è un privilegio, un’opportunità costante di apprendimento. Non toglier energia, ma nutre.

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