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Giovedì, 18 Aprile 2024
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Salvata dalla ricerca e guarita col trapianto: la storia di Diana, nata con una malattia ultra rara

Come lei solo altri quattro casi nel mondo. Dopo essere riusciti a scoprire il gene della malattia e darle un nome (sindrome NOCARH), i medici del Bambino Gesù hanno guarito la bambina grazie al trapianto di midollo dal papà. Il caso pubblicato su Journal of Experimental Medicine

A due settimane dalla nascita, la piccola Diana viene trasferita all'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, in gravi condizioni e con sintomi di una malattia che sembra inspiegabile: pelle piena di macchie, febbre alta continua, gravi carenze di cellule nel sangue (globuli rossi e bianchi, piastrine). I suoi primi sette mesi di vita li passa in isolamento in ospedale, seguita dai medici di onco-ematologia e reumatologia, che cercando di identificare la sua malattia o almeno tenerla sotto controllo.

Dopo anni di studi e tentativi, i ricercatori sono riusciti finalmente a identificare la mutazione del gene responsabile della patologia non solo rarissima, ma addirittura "ultra rara", di cui ad oggi si conoscono solo altri 4 casi al mondo, quasi tutti purtroppo con esito drammatico. Grazie a un trattamento farmacologico sperimentale e un trapianto di midollo, oggi Diana sta bene ed è finalmente guarita. La sua storia clinica e i risultati della ricerca che hanno contribuito a salvarle la vita sono stati pubblicati sul Journal of Experimental Medicine e il Bambino Gesù ha deciso di rendere pubblica la sua vicenda alla vigilia della giornata mondiale delle malattie rare, per sottolineare l’importanza della ricerca scientifica e dell’approccio multidisciplinare per riuscire a dare un nome alle malattie senza diagnosi, come primo passo verso una possibile terapia.

Diana e la scoperta del genere della sua malattia "ultra rara"

La bambina è stata curata inizialmente con un farmaco biologico (anakinra), che era riuscito a contenere gli eccessi infiammatori provocati dalla malattia sconosciuta. I primi effetti sono positivi e addirittura Diana per la prima volta viene rimandata a casa, ma la situazione peggiora improvvisamente poco mesi dopo, con l'insorgere di nuovi, strani sintomi: riaccensioni auto-infiammatorie, emorragie intestinali, crisi convulsive. I medici del Bambino Gesù cambiare terapia, cercano ancora una volta una soluzione, mentre la bambina passa va avanti tra ricadute e ricoveri continui, anche se nel frattempo viene inserita nel programma di ricerca dedicato alle malattie rare e senza diagnosi basato sull'uso delle nuove tecnologie genomiche, finanziato dalla campagna Vite Coraggiose della Fondazione Bambino Gesù onlus.

Grazie alle piattaforme di sequenziamento di ultima generazione, i ricercatori arrivano a identificare una mutazione potenzialmente implicata nella malattia, su un gene chiamato CDC42, di cui erano state precedentemente individuate dagli stessi ricercatori dell’Ospedale altre mutazioni associate a diverse malattie del neurosviluppo. Inizia così la ricerca incrociata sui database mondiali di malattie rare per scoprire nel 2016 che ci sono pochissimi casi al mondo come Diana. "Identificare una possibile mutazione come causa di malattia rappresenta però solo il primo passo – spiega uno dei coordinatori dello studio,  dottor Marco Tartaglia, responsabile del laboratorio di Genetica Molecolare e Genomica Funzionale – Per dimostrarne il ruolo causativo è infatti necessario attivare una serie di studi di validazione funzionale che consentano di capire in che modo la mutazione identificata possa alterare la funzione della proteina e conseguentemente i processi cellulari e fisiologici implicati nella malattia".

L’identificazione di più pazienti con questa mutazione e con quadri clinici sovrapponibili e la dimostrazione dello specifico impatto funzionale della variante arriva dopo due anni di ricerche, mentre Diana continua la sua lotta per la vita. Gli studi permettono di confermare che la mutazione del gene CDC42 è effettivamente la causa della sua malattia, e la malattia può finalmente avere un nome: sindrome NOCARH (Neonatal-Onset Cytopenia with dyshematopoiesis, Autoinflammation, Rash and Hemophagocytosis).

Da quel momento, è stato possibile concentrarsi sulla ricerca di una terapia: differentemente dalle altre malattie causate da mutazioni in CDC42, la condizione di Diana è essenzialmente limitata alle cellule del sangue. Sulla base di questa considerazione e dei dati prodotti dalla ricerca, si ritiene che il trapianto di midollo, quindi la sostituzione delle sole cellule del sangue, possa sconfiggere la malattia.

figura CDC42-2

Differentemente da quanto si osserva nelle cellule di soggetti sani (pannello a sinistra), la mutazione che causa la sindrome NOCARH blocca la proteina CDC42 (colorata in verde) in uno specifico comparto intracellulare (colorato in rosso), come mostrato nel pannello di destra

Una corsa a ostacoli fino al trapianto

Mentre la patologia di Diana comincia a essere via via più comprensibile, la bambina continua a manifestare delle fasi infiammatorie acute molto gravi, che possono portare anche alla morte, come già accaduto agli altri pazienti. Nella primavera del 2017 la bambina presenta una di queste ricadute infiammatorie con un infarto intestinale. Nonostante la sua condizione, i medici decidono di sottoporla a intervento chirurgico per scongiurarne la morte. Quando esce dalla sala operatoria, dopo quattro ore di intervento, per tornare in rianimazione, le condizioni di Diana risultano più critiche che mai poiché ha sviluppato infatti una iper-infiammazione. I medici temono ormai il peggio e decidono di usare, in via compassionevole, un altro farmaco sperimentale, l’emapalumab, usato fino ad allora solo su 15 bambini prima di Diana (nessuno dei quali con la sua malattia). Si tratta di un anticorpo monoclonale che serve a controllare l’esasperata risposta infiammatoria nei pazienti con HLH (Linfoistiocitosi Emofagocitica primaria). L’Ospedale Bambino Gesù coordina le sperimentazioni nel mondo di questo farmaco, che poi sarà usato con successo per Alex, il bambino trasferito a Roma da Great Ormond Street Hospital di Londra nel novembre 2018 e accompagnato al trapianto di cellule staminali emopoietiche dal prof. Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Onco-ematologia e terapia cellulare e genica dell’Ospedale della Santa Sede.

Il farmaco funziona anche con Diana, persino oltre le aspettative: la fase acuta passa in pochi giorni e la bambina sta subito meglio. "Diana aveva già dovuto superare momenti di grande difficoltà a rischio di vita – ricorda il dottor Fabrizio De Benedetti, responsabile di Reumatologia del Bambino Gesù –. I risultati delle lunghe ricerche in laboratorio ci hanno permesso di applicare questa terapia in modo personalizzato, mirando al meccanismo alla base della sua malattia".  

Un intervento unico per una bambina unica

Diana può sottoporsi a un trapianto di midollo. In assenza di un donatore compatibile, i medici devono ricorrere a uno dei due genitori (trapianto aploidentico), in questo caso il papà: si tratta di una procedura complessa basata sulla manipolazione delle cellule staminali emopoietiche prelevate dal donatore, per privarle selettivamente di tutti gli elementi che potrebbero aggredire l'organismo del ricevente. "Un trapianto di cellule staminali emopoietiche da donatore aploidentico su una paziente con una patologia fino ad oggi sconosciuta presentava diverse incognite, ad esempio l’eventualità di un non attecchimento delle cellule infuse – ricorda il professor Franco Locatelli –. Il rischio di insuccesso era altissimo, ma si trattava anche dell’unica opzione per sconfiggere la malattia con cui Diana lottava dalla nascita".

Il trapianto alla fine è stato un successo – un intervento unico al mondo per una bambina unica – e oggi Diana non presenta più i segni della malattia, un tempo sconosciuta, e di cui magari la bambina conserverà nel futuro soltanto il ricordo.

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