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Mercoledì, 24 Aprile 2024
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"Mi ha picchiato e chiuso nel bagagliaio: ero una cosa sua. Ora lotto per le altre donne"

A Today la testimonianza in prima persona di Alice (nome di fantasia): vittima di violenza fisica, psicologica, economica da parte del marito. Quando lui l'ha picchiata e rinchiusa nel bagagliaio della macchina, ha deciso di denunciare. Ora lotta per le altre donne

Mi chiamo Alice (nome di fantasia, ndr*). Sono arrivata in Italia nel 1995, da un paese dell'Est. Ho conosciuto quasi subito quello che adesso è il mio ex marito, siamo andati a convivere e poco dopo sono rimasta incinta. All’inizio era una brava persona, il classico principe azzurro che tutte le donne sognano. Quando sei innamorata non riesci a capire il limite tra possessività e amore: tu ami con tutto il cuore una persona e pensi che lui ami te allo stesso modo.

La prima sberla me l’ha data quando ero incinta, di cinque o sei mesi, perché avevo messo una camicetta che secondo lui era un po’ sexy. La mattina dopo mi ha chiesto scusa, mi ha portato un mazzo di fiori e mi ha detto che non lo avrebbe fatto mai più. Io ero furiosa, non ero abituata ad essere trattata così, però in quel momento non sapevo come reagire perché, in fondo, pensavo: se è geloso vuole dire che mi ama. In più io ero in Italia con il permesso di soggiorno grazie a lui, non potevo tornare a casa mia perché non potevo comprarmi il biglietto, economicamente dipendevo da lui. Dopo questo episodio, l’ho perdonato. Abbiamo continuato a vivere insieme, però quasi subito sono iniziate da parte sua delle piccole “diminuzioni” di me, come persona. Quando una donna partorisce, a volte rimane un po’ “in carne”, no? Lui mi diceva: “Sei grassa come una mucca, ma come sei brutta. Ti sei guardata allo specchio?”. Qualche anno dopo sono entrata in depressione, arrivai a pesare 46 chili anche se sono sempre stata una donna piuttosto alta. Psicologicamente mi sentivo continuamente sotto accusa. La bambina si faceva male? “È colpa tua”. Il mangiare faceva schifo, perché non avevo avuto tempo di cucinare visto che ero stata fuori per lavorare o per seguire i figli? “È colpa tua”. Con la nascita del secondo figlio, le cose sembravano essere migliorate. Quasi come fossimo tornati ai bei tempi.

Nel 2008 ho scoperto che lui aveva un’altra donna e un altro figlio. Un’altra famiglia da mantenere, mentre da noi i soldi non bastavano mai. Quando l’ho affrontato, lui mi ha minacciato di nuovo. Mi ha picchiato. Non l’ho denunciato, ma sono andata dal mio medico, che mi ha fatto un certificato per testimoniare le ferite: i lividi, il labbro spaccato, le botte in testa. Me le aveva messe bene le mani addosso... Ma cosa potevo fare? Avevo tre figli, una casa appena comprata, un mutuo oneroso sulle spalle. Come sarei potuta andare avanti da sola, con i miei lavoretti part time? Io volevo solo dare la miglior vita possibile ai miei figli. Per quello ho iniziato a sopportare.

Psicologicamente, ormai il danno era fatto. Mi aveva convinto di essere brutta, di essere una buona a nulla: ero uno zero. Mi sembrava persino che lui si vergognasse a uscire con me. E quando gli amici o le altre persone mi vedevano con i lividi, ho iniziato a dire le bugie: "Ho sbattuto contro una porta", "sono caduta dalle scale", "era buio e non ho visto". Magari qualcuno avrà anche sospettato, ma da fuori sembravamo una bellissima famiglia: avevamo tutto. Però solo da fuori. Lui davanti agli altri era una brava persona, ma quando entrava in casa iniziava l’incubo.

Nel 2014, abbiamo deciso di comprare un bar per mia figlia, così che avesse un lavoro una volta finita la scuola superiore. Una notte, a luglio, mi ha svegliato tirandomi per i capelli e urlando. All’inizio non capivo cosa volesse. Mi ha buttato giù per le scale e trascinato in mezzo alla strada, sempre picchiandomi. Con forza. Con violenza. Diceva che io lo tradivo. In quel momento, mentre lottavamo, ho capito che stavo rischiando la vita. Dopo avermi picchiato, lui mi ha preso e buttato in un canale che scorreva lì vicino. Approfittando del fatto che se ne era andato, sono riuscita a tirarmi fuori da quel canale e ho iniziato a camminare lungo la strada principale per chiedere aiuto. A quel punto però l’ho visto venirmi incontro con la macchina. Ho iniziato a correre ma così, sola, in mezzo alla strada, sporca di sangue e fango, chi mai mi avrebbe aiutato? Per sfuggirgli, ho cercato di scavalcare il guardrail e fuggire per le campagne, ma sono rimasta impigliata. Lui mi ha raggiunto. Mi ha tirato per i capelli e mi ha buttato nel bagagliaio della macchina. Mi ha preso a sprangate le gambe: “Così non corri più”. Ogni tanto fermava la macchina e tornava a picchiarmi. Mi ha salvato il fatto che lui abbia chiamato al telefono un cliente del bar, convinto che fosse il mio amante. Ha iniziato a picchiarmi mentre era in vivavoce con lui, voleva che io confessassi il tradimento. Alla fine, ho anche provato a confessare questa cosa non vera, speravo di placare così la sua rabbia, non sapevo più che fare. Dall’altra parte della linea, quella persona è riuscita a chiamare i carabinieri ma non sapeva dove eravamo. Intanto mio marito mi aveva rinchiuso nel bagagliaio e aveva ricominciato a guidare. Lì dentro ho realizzato che ormai mi mancava poco. Non ho “visto” la morte in faccia. Io ho “sentito” la morte in faccia. Gli ho chiesto farmi salutare i miei figli. “Non posso morire senza prima aver salutato i miei figli”, gli dicevo. Lui non ha voluto. Da dentro mi è salita la rabbia. “Col cazzo che io muoio qui dentro questa macchina senza salutare i miei figli”, mi dicevo. Il mio unico pensiero era: devo salutare i miei figli. Una volta arrivata in casa, mi ha ripreso dall'auto e buttato dentro. Ha ricominciato a picchiarmi. Io non sentivo più dolore, vedevo solo che mi picchiava, le sue mani sporche del mio sangue, ma non sentivo più niente. Dopo un’ora e quaranta finalmente mi hanno trovato i carabinieri, che si erano messi alla ricerca dell’auto di mio marito. Mi hanno portato in ospedale in ambulanza, a Bologna. Ricordo la risonanza magnetica, mentre mi mettevano i punti sulle labbra rotte, sul viso. Là, in ospedale, ho capito che la prossima volta che mi avrebbero portato dei fiori sarebbero stato al cimitero e a portarmeli sarebbero stati i miei figli. Da lì è iniziato il mio percorso verso la libertà. L’ho denunciato. C’è stato un processo penale, lui ha avuto il rito abbreviato e poi il patteggiamento. Gli hanno dato un anno e dieci mesi, è stato libero subito. È stato due mesi in carcere, quattro mesi ai domiciliari e poi libero di uscire per lavorare. Nel patteggiamento io avevo chiesto per lui l’allontanamento, sia dal posto di lavoro sia da casa. Ma lui mi girava intorno lo stesso, tranquillo. In quel momento non credevo più nella giustizia italiana: mi ha massacrato di botte, io quasi morivo e gli avevano dato solo un anno e dieci mesi.

Una notte – ormai era già libero – è entrato in casa e ha provato a strangolarmi. Non voleva che chiedessi la separazione, voleva togliermi i figli. Io ero diventata una sua proprietà. Come la casa, come la macchina. Io ero sua, non ero nessuno. Non ho fatto più denuncia. Se dopo quello che era successo aveva avuto solo un anno e dieci mesi, cosa gli avrebbero fatto ora solo per qualche livido che mi aveva lasciato sul collo? Mi sono rivolta agli assistenti sociali, ora sono separata ma c’è ancora una causa civile, perché c’è di mezzo un figlio minorenne. Lui ha gli stessi miei diritti. Con il procedimento penale c’è il patrocinio gratuito, ma con il civile no. Lì bisogna pagare e tanto. Come faccio a pagare il consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice? Per trovare duemila euro io devo lavorare tre mesi. Anche questa è violenza economica.

Quando sono sopravvissuta a quel massacro, ho capito che devo fare qualcosa per le altre donne. Dire loro: “Non devi avere più vergogna, non è colpa tua”. Perché noi siamo le vittime ma ci diamo la colpa da sole. Se lui beve o è un alcolista, è perché tu non sei una brava moglie. Se ti ha picchiato è perché tu lo hai tradito. Quando sono arrivata ad ottobre nel gruppo di auto mutuo aiuto, ho raccontato la mia storia e ho pianto, per la prima volta. Perché fino a quel momento non avevo nemmeno potuto piangere, non davanti ai miei figli. Ora faccio tutto quello che posso per le altre donne. Non posso andare con il mio nome, perché lui continua a denunciarmi per qualsiasi cosa, non posso liberarmi, né io né i figli, finché non diventano tutti maggiorenni. Io ho subito violenza fisica, psicologica, economica. Ma loro hanno assistito a tutto, sono stati anche loro vittime di violenza assistita. Hanno visto la madre piena di lividi, quei maltrattamenti, quelle umiliazioni. E io non volevo che pensassero che umiliare una donna fosse giusto.

Ora sono in gruppo di auto mutuo aiuto di Bologna. Abbiamo aperto un altro gruppo a Ferrara. Vado a testimoniare nelle scuole, nelle università, negli ospedali. Accompagno le donne in tribunale, le aiuto, cerco di far capire loro che non sono sole. Possono fare da sole, ma non sono sole. Voglio portare avanti un progetto di giustizia pel le donne, per i nostri figli. Io stessa ho una figlia femmina, magari un domani si ritroverà nella stessa situazione e mi dispiacerà non aver fatto niente per impedirlo. Se oggi sto lottando, lo sto facendo innanzitutto per me, per essere più libera io, ma anche e soprattutto per le altre donne. Se ne sono uscita io, possono uscire anche loro: questo è il concetto. C’è una vita d’uscita. La libertà ha un prezzo, ma alla fine, una volta pagato quello, sei libera. Io ancora adesso ho paura, non posso andare al supermerato da sola perché a volte ho attacchi di panico. Dormo sul divano con la tv sempre accesa, così posso guardare la porta. Ho paura, però ho imparato ad affrontarla adesso.

* testimonianza raccolta grazie a Pangea Onlus.

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