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Martedì, 23 Aprile 2024
Leggere il mondo

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A cura di Chiara Cecchini

Un romanzo per raccontare i Neet: "Essere giovani è un peccato originale che si sconta col tempo"

Tra i tanti anglismi con cui ormai abbiamo imparato ad avere familiarità nei più disparati campi della nostra esistenza c'è sicuramente il termine Neet. Ossia Not in Education, Employment or Training. Tradotto: chi non studia, non lavora e non si sta formando. Una "categoria gloriosa" la definisce il protagonista del libro d'esordio di Sandro Frizzero, insegnante di lettere classe 1987, da titolo 'Confessioni di un Neet' (Fazi Editore). Narrato tutto in prima persona, il romanzo ci permette di entrare nella sua mente per scoprire che anziché considerarsi un fallito, come in tanti lo etichetterebbero, lui si vede come un autentico ribelle, un rivoluzionario pronto a difendere "quella categoria tutto sommato à la page, anzi direi cool, di giovani uomini e giovani donne che danno fastidio alle istituzioni borghesi con la loro sola impercettibile presenza".

Noi Neet siamo i più rivoluzionari di tutti e mai e poi mai vorremmo interagire con la società da cui siamo valorosamente e orgogliosamente fuori

Il protagonista passa la maggior parte del suo tempo chiuso nella propria camera, nella casa dei genitori, da cui esce soltanto per mangiare i manicaretti preparati dalla madre. Non ha amici, non ha una fidanzata, non ha nessun tipo di occupazione (anche se a un certo punto, per tacitare i genitori, finge di averne trovata una), non ha nulla se non due gatte parlanti e il mare magnum internettiano. 

Con spietata acutezza, il Neet osserva il mondo che lo circonda e taglia giudizia con l'accetta, deride sistemi di valori, demolisce piccole soddisfazioni personali. Ne ha per tutti: dai suoi genitori, dei quali mette alla berlina l'ipocrisia e le contraddizioni, ai suoi coetanei non Neet, che si barcamenano tra impieghi vampirizzanti e stipendiucci umilianti, dal mondo universitario a quello del lavoro. E' lui contro tutti, lui contro il Sistema. 

Si tratta chiaramente di un personaggio paradossale, grazie al quale Frizziero riesce a fare una mordace e feroce satira della nostra contemporaneità. Ne abbiamo parlato insieme a Più libri più liberi 2018, dove ha presentato il romanzo. 

Al di là del semplice acronimo, chi sono i Neet?

Sono innazitutto giovani, dai 15 ai 29, 30 anni, che non studiano nelle scuole superiori né nelle università, non stanno lavorando e non stanno facendo altro tipo di formazione. Sono delle giovani persone che si trovano sostanzialmente in un limbo tra un passato da studenti più o meno riuscito e un futuro da lavoratori non troppo lontano. Cosa contraddistingue un Neet da un disoccupato? Il fatto che quest'ultimo ricerca attivamente lavoro, mentre il Neet invece ha smesso di cercarlo: dopo aver passato mesi a mandare dieci cv al giorno, poi ne manda cinque, poi due, poi ne manda uno a settimana e infine neppure quello, quando vede che non riesce ad avere un riscontro. Questa persona si siede, nell'attesa di un qualcosa che possa in qualche modo modificare il corso degli eventi. Rappresentano una categoria eterogenea: tra loro infatti c'è chi ha abbandonato la scuola prematuramente (magari perché ha trovato presto un lavoretto che poi però ha perso e quindi si è ritrovado ad esempio a 22, 23 anni senza un lavoro e senza il diploma), c'è chi dopo gli studi universitari ha iniziato una carriera con stage e altre cose e dopo due, tre, quattro stage non retribuiti si è demotivato e ha smesso di cercare attivamente. Non si può quindi parlare dei Neet in maniera unitaria. In tutto sono un milione e mezzo in Italia, è difficile anche solo definire globalmente questo fenomeno. 

Tu hai 30 anni, hai un lavoro e quindi non sei un Neet. Lo sei stato per un periodo?

Non ho mai avuto questo tipo di esperienza, un po' perché avevo voglia di darmi da fare ma anche perché ho avuto fortuna (perché quella incide, certo). Ho sempre fatto qualcosa, anche mentre studiavo e lavoravo. Però ho conosciuto ragazzi che sono stati Neet e, avendo insegnato tre anni nelle scuole serali, ho visto qualche neet "recuperato" dal sistema di istruzione. Ci sono anche Neet "pentiti", perché quando si abbandona la scuola prematuramente lo si fa a volte anche con la convinzione di fare la cosa giusta. La maggior parte di questi che abbandonano si rendono conto più avanti con gli anni di aver fatto un errore, anche perché qualsiasi tipo di attività professionale abbiano intrapreso si rendono conto a un certo punto che un diploma ci vuole sempre, per uno scatto, per una nuova mansione etc etc. Ho avuto modo di entrare in contatto con questa realtà e di ascoltare anche qualche testimonianza dei genitori di questi ragazzi, perché la condizione di Neet coinvolge la famiglia. E' difficile da accettare un po' per tutti. 

Non avendo quindi una tua esperienza personale come Neet, perché esordire con un romanzo che parla di questo fenomeno, con il protagonista che un Neet portato alle estreme conseguenze?

Non volevo realizzare un romanzo dal taglio sociologico, non ho studiato dal punto di vista scientifico il fenomeno. Mi ha sorpreso però che alcuni genitori mi dicessero di aver riconosciuto in alcuni tratti del mio protagonista i propri figli per poi venirmi a dire ad esempio: 'Questa cosa qui l'avrebbe potuta dire mio figlio'. Mi ha sorpreso. Ho scelto questo tema perché tutto è nato dalla volontà di immaginare un personaggio che potesse essere al di fuori del mondo e della società per poterla giudicare senza troppi filtri, dal lavoro alla famiglia agli affetti. Questo personaggio che si autoescludeva mi è sembrato quindi il personaggio migliore per parlare poi di tutto il resto. C'è qualcosa anche di eroico nel mio Neet, pur essendo in effetti una cattiva persona, con il suo nichilismo, la sua misoginia estrema, il suo non essere certo un portatore sano di valori. Questo suo eroismo, o antieroismo, latente viene fuori perché il lettore prova forse nei suoi confronti anche una sorta di solidarietà, riconoscendogli a volte il fatto di aver ragione. A me interessava questa ambiguità: riuscire a far parlare di argomenti condivisibili, però calcando all'estremo alcune logiche, un personaggio non particolarmente simpatico. 

Una volta essere giovani era una cosa positiva, veniva loro riconosciuto il fatto di avere competenze, voglia di fare, un futuro positivo da costruire. Adesso sembra essere giovani invece sembra un ostacolo in partenza. E' così, secondo te?

Questa diagnosi mi trova d'accordo. Essere giovani oggi viene visto come una sorta di peccato originale che si sconta con il tempo, ma in realtà se pensiamo a come sta andando l'economia e in generale il nostro mondo, i giovani sono propri quelli che potrebbero avere invece qualche strumento in più per far fronte ad alcune cose. Penso ad esempio all'economia digitale. Invece molto spesso in realtà si sente dire che si è troppo giovani o troppo vecchi ormai per fare certi lavori. Non si è mai nell'età giusta. 

Cosa si può fare?

Non ho una ricetta, chiaramente, però posso dire che non bisognerebbe farsi irretire dalla retorica della crisi, che descrive molto volte una realtà che è nei fatti, però per chi si affaccia al mondo rischia di essere una sorta di freno che li blocca in partenza. Lo vedo nei miei studenti, sicuramente più realisti di quanto vorrei. 

Tu infatti sei giovane ma sei a contatto con persone ancora più giovani di te, con altri punti di riferimento ed esperienze, da renderli già quasi un'altra generazione completamente diversa.

Le generazioni stanno un po' saltando, rispetto ai 25 anni canonici. A me fa specie vederli sempre molto realisti. Già sanno ad esempio che quella determinata carriera non la possono fare perché non hanno una famiglia con possibilità alle spalle, oppure sanno che in molti casi per riuscire servirà una raccomandazione. Si percepisce questo scoraggiamento e, secondo me, questa litania della crisi finisce un po' per avvalorare la loro disperazione. Però, per tornare al discorso di prima, al tempo stesso non bisogna nemmeno farsi irretire dalla retorica opposta, ossia quella del successo a tutti i costi, da questa mentalità iper competitivista per cui bisogna sempre primeggiare a discapito degli altri. E' una tendenza preoccupante che espone i più giovani, ma non solo loro, a delle frustrazioni notevoli. Se c'è un consiglio che posso dare, senza ovviamente ergermi a maestro di vita, è quello di porsi degli obiettivi piccoli ma raggiungibili, provando a raggiungerli ogni giorno con impegno ma senza aspettarsi risultati immediati. Così si può realizzare un percorso, senza demoralizzarsi ma nemmeno esaltarsi. 

Le professioni digitali, dicevamo. A volte però internet e il digitale possono diventare un'arma a doppio taglio.

Internet e in generale i social network non vanno demonizzati come si sente invece fare da più parti, ché alla fine è un po' un modo per non voler risolvere certi problemi. Non va neanche visto come l'unico futuro che ci aspetta. Ci sono anche forze politiche che hanno costruito il loro successo su questa esaltazione della rete. Il mondo digitale è un dato di fatto. Probabilmente come avviene sempre quando c'è un'evoluzione tecnologica non abbiamo ancora gli strumenti per gestirlo al meglio. Credo che bisognerà che passi un po' di tempo e allora lì ci sarà anche maggior consapevolezza della nostra vita in rete rispetto alla nostra vita non in rete. Adesso i più giovani sono ancora in balia di queste logiche perverse della rete, non si rendono conto degli effetti che alcuni loro atti sullla rete possono provocare. Senza demonizzarla, la rete ormai c'è ed è impossibile tornare indietro. Ci vorrà tempo prima che questi meccanismi vengano interiorizzati. 
 

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