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Sabato, 20 Aprile 2024
Leggere il mondo

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A cura di Chiara Cecchini

“Da duemila anni” di Mihail Sebastian: gli ebrei, la patria e la violenza

«Per strada mi ha fermato Marcel Winder per dirmi che l’hanno pestato di nuovo. "E’ l’ottava volta questa", mi ha detto, senza precisare se si trattasse dell’ottava batosta o dell’ottava ferita». Poteva succedere questo, per le strade della Bucarest degli anni Venti: venire pestati perché ebrei. Anni cupi, neri, preludio ad altri ancora più oscuri e violenti, dominati da antisemitismo e nazionalismi. Mihail Sebastian, pseudonimo di Iosef Hecther, li racconta in un romanzo che Fazi pubblica - nella traduzione italiana di Luisa Maria Lombardo - in concomitanza con la Giornata della Memoria. 

Da duemila anni contiene le riflessioni lucide e drammatiche di un giovane ebreo romeno, tormentato dall’inquietudine. Le sue prime esperienze all’università sono all’insegna di insulti e prepotenze legalizzate, alle quali i suoi amici rispondono chi votandosi a un dignitoso martirio, chi abbracciando ideologie rivoluzionarie. Ma per l’anonimo protagonista del romanzo queste restano vie impercorribili, ripudiando il sionismo ma non riuscendo a fare lo stesso con la religione dei padri, altrettanto forte in lui quanto lo è la consapevolezza di essere «prima di tutto, un uomo del Danubio».

«Probabilmente, mi sarà sempre impossibile parlare della “mia patria romena" senza un brusco sentimento di pudore, giacché non posso conquistare con la forza un diritto che non sono riuscito a conquistare con il paziente trascorrere del tempo, con la buonafede messa in dubbio, con la sincerità rinnegata (…) amando ciò che non ho il diritto di amare”, dice il protagonista, ammettendo però poco dopo: «Non smetterò mai di essere ebreo. Non è una funzione da cui ti puoi dimettere. O lo sei o non lo sei. Non si tratta né di orgoglio né di vergogna. E’ un dato di fatto». 

In mezzo a tutto ciò ci sono gli amici e i colleghi del giovane protagonista, che si lascia ispirare da due figure tanto carismatiche quanto agli antipodi, come il professore Ghita Blidaru - che lo convince a lasciare gli studi di legge per iscriversi alla facoltà di architettura - e il “Maestro” Mircea Vieru, «un cartesiano smarrito a Bucarest»: «loro sono i perfetti personaggi per un dialogo platonico, i poli opposti di un teorema. Il dramma della storia romena moderna, recitato e interpretato da due eroi».

Sebastian affida alla voce del protagonista e degli altri personaggi che compaiono nel libro profonde analisi sull’ebraismo, su «duemila anni trascorsi fra roghi, naufragi e peregrinazioni» e su «l’incomprensione tra il Danubio e il ghetto», che si incastrano con quelle sul dualismo tragico e irrisolto della cultura romena moderna, «con l’Occidente o con l’Oriente, con l’Europa o con i Balcani, con la civiltà cittadina o con lo spirito rurale».

Quelle scritte da Sebastian in questo diario romanzato sono pagine intimiste, vibranti e dolorose, spesso provocatorie. Bene ha fatto Fazi a pubblicarle, sebbene si avverta la mancanza di una nota introduttiva che aiuti a contestualizzare meglio l'opera e l'autore. Il libro uscì per la prima volta nel 1934 con una controversa prefazione scritta dal filosofo Nae Ionescu, amico dello scrittore (e ispiratore del personaggio del professore), impregnata di antisemitismo, che attirò su Sebastian critiche sia dai nazionalisti romeni sia dalla comunità ebraica, dalle quali cercò dolorosamente di difendersi. Sopravvissuto alla guerra e alle deportazioni, Sebastian morirà nel 1945 investito da un camion sovietico. 

Da duemila anni restituisce il clima oppressivo di violenza e paura della Romania che si stava preparando alla dittatura alleata del nazismo e poi agli orrori della guerra, durante la quale migliaia di ebrei furono uccisi e deportati. “Morte agli ebrei!”, sente urlare a un certo punto il protagonista da un gruppo di giovani nel centro di Bucarest. Un grido «vecchio, amaro e familiare» che però lo scuote come se per la prima volta ne capisse davvero il significato. «A pensarci bene, la cosa più grave non è il fatto che tre ragazzi si possano mettere all’angolo di una strada e gridare “morte agli ebrei”, bensì che il loro grido possa passare inosservato e che nessuno si mostri contrariato, quasi fosse solo il campanello di un tram».

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