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Venerdì, 19 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Il consumo di suolo non è un problema estetico

C'è uno di quei giochini di Facebook che ti invita a porti una domanda (prefissata dai programmatori) e darti da solo una risposta a tua scelta. Tra le varie possibilità c'è anche un «La foto più assurda sul mio telefono in questo momento è...» che consente di compilare un post illustrato, scegliendo una delle tante immagini che abbiamo in memoria. Ripensando per un istante a quale scatto fra i tantissimi a disposizione potesse spiccare per «assurdità», mi è venuto in mente di provare a frugare in una striminzita cartellina dove avevo archiviato le immagini della cosiddetta Giornata della Mietitura, organizzata dagli stessi sponsor della installazione eco-urbana denominata «Campo di Grano» al simbolico quartiere di Porta Nuova a Milano, nel periodo di Expo 2015. Mostrava, quel mio scatto poi scelto e caricato, qualche finto mietitore messo lì in costume folk a posare per i fotografi, e soprattutto trattori, balle di paglia, e incombente sullo sfondo il famoso Bosco Verticale, le due torri di architettura «sostenibile» diventate – a torto o ragione – uno dei simboli della nuova città, che esce dalle secche del ciclo industriale per avviarsi a una diversa fase di sviluppo.

Il mio intento era di riassumere, con quell'immagine adeguatamente «assurda» come richiesto dal giochino del social network, un'idea di postmodernità nostalgica assai in voga, quella che Zygmunt Bauman definisce «Retrotopia», in cui sembra che il progresso non si rivolga più fiducioso al futuro, ma guardi invece al passato. Tutto quell'agghindarsi della metropoli da campagna finta, più simile a quella che si vede sulle etichette da supermercato di qualche prodotto «genuino» che ai veri paesaggi dell'agricoltura, mi pareva assai simbolico di un modo di pensare. Non avevo però fatto i conti col modo di pensare dei miei interlocutori, della massa dei miei Amici Facebook, i cui commenti immediatamente si sono concentrati sul solo oggetto non tradizionale di tutto quel panorama, ovvero sul grattacielo griffato «verde». Addirittura definendolo, e qui sta il punto principale: «consumo di suolo». Del resto non è la prima volta che quel nuovo quartiere di Milano, nel suo insieme o per singole componenti, viene classificato così; addirittura alcuni anni fa una esponente di punta della cultura conservazionista nazionale, aveva parlato in un articolo su un giornale di «consumo di suolo» a Porta Nuova. Ergo, decisamente, impera una masochista incredibile confusione sul significato di quelle parole.

Tutto probabilmente risale ai primi anni duemila, quando iniziava anche nel nostro paese, come già in altri europei, ad affermarsi l'idea secondo cui anche il suolo, al pari di altre risorse, non è inesauribile e infinitamente disponibile: ogni metro quadrato di superficie del territorio trasformato a funzioni urbane, è un metro quadrato sottratto all'agricoltura, alla natura, e in generale a tutti i cosiddetti indispensabili «servizi all'ecosistema» che svolge. E a furia di consumarne non ce ne sarà più per produrre cibo, far crescere piante, ospitare biodiversità, filtrare l'acqua piovana, regolare le temperature e via dicendo. Pareva inutile precisare che quel «ogni metro sottratto» si riferisse piuttosto specificamente alle superfici davvero in grado di svolgere funzioni del genere, ma quasi subito nelle campagne di sensibilizzazione diffusa a qualcuno venne in mente di aggiungere un intuitivo, accorato «salviamo il paesaggio».

Ottima intenzione e ottimo spunto, parrebbe, se non fosse che piuttosto in fretta si è arrivati (con l'ovvia eccezione di chi se ne occupa sul versante tecnico scientifico e normativo, ovviamente) a sovrapporre di fatto il consumo di suolo a qualunque cosiddetta «cementificazione», ovvero ciò che non piace per un motivo o l'altro a qualcuno: perché giudicato speculativo, perché rovina il panorama, perché insomma non incontra i gusti di chi lo critica. E il criterio oggettivo, così, quello da cui era partita la lodevole campagna, ha finito per perdersi nel vario calderone di battaglie locali di vario segno, dal condivisibile ambientalismo, al conservazionismo estetico, al puto atteggiamento «nimby», certo legittimo, comprensibile, a volte condivisibile addirittura. Ma che fa male, malissimo, a qualunque tentativo serio di affrontarlo, il tema vero: una risorsa, il suolo, che senza una politica seria e lungimirante rischiamo di esaurire sull'arco di poche generazioni. Ripensiamoci.

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