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Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Da qui a lì in sicurezza, e ho detto tutto

Quando si parla di trasporti e relativa sicurezza e affidabilità, gli argomenti paiono sempre chiarissimi. I paladini della libertà ed elasticità automobilistica non hanno dubbi sulla superiorità delle autostrade, dorsali di un sistema gerarchico che poi si articola diffuso «naturalmente» come nelle piante: dal tronco, attraverso i rami, sino alle foglie delle abitazioni, delle fabbriche, degli uffici. I difensori del sistema dei trasporti pubblici e collettivi, coadiuvati dal car-sharing, dalle piste ciclabili, dalla mobilità pedonale e magari da quella virtuale oggi garantita dalla rete, contrappongono la maggior sicurezza e minore impatto ambientale della propria opzione, meno dipendente dal petrolio, meno foriera di incidenti mortali, e come si dice spesso e volentieri «a misura d'uomo». Dato che però questo uomo a quanto pare non lo si riesce a misurarlo, e neppure quelli che nella cultura novecentesca ci hanno provato seriamente, col cosiddetto Modulor, hanno combinato gran che di valido e duraturo, anche con l'opzione mobilità pubblica e dolce restiamo più o meno al punto di prima: a qualcuno va bene, a qualcun altro molto meno, o per niente.

Un nuovo studio comparativo internazionale dello World Resources Institute prova però a ribaltare del tutto la faccenda, e del resto non si tratta di un problema accademico, se pensiamo che il tipo di mobilità urbana automobilistico oggi prevalente si fa pagare un milione e duecentocinquantamila morti l'anno, per il gusto di andare rapidamente e comodamente da qui a lì dentro il veicolo che ha segnato di sé tutto il XX secolo. La domanda che provano a porsi, nel rapporto «Città Progettate per la Sicurezza», suona più o meno: ma siamo proprio sicuri che sia il destino a imporci di andare da qui a lì in quel modo? E la risposta, abbastanza sorprendente per chi ragiona sempre e solo in termini di trasporti e mezzi di trasporto, parte dalle mete anziché dai modi per raggiungerle. Se sono più frequenti, comode, agevoli, attraenti, perché mai dovremmo essere obbligati o in altro modo spinti a sfrecciare pericolosamente dall'una all'altra?

Ne emerge, come spesso accade in questi casi, un ripescaggio critico ma sostanziale delle classiche teorie urbanistiche pre-moderniste, ovvero non fortemente influenzate dai miti complementari dell'automobile privata, della dispersione territoriale, della segregazione funzionale. Densa, porosa, ricca, la città è una specie di crema o rete fittissima dove si trova vicino tutto ciò che è possibile e immaginabile. Il resto succede poi, ovvero per andare casa al lavoro, a scuola, a divertirsi e viceversa non è indispensabile coprire grandi distanze, e quando eventualmente le distanze esistono (poniamo per attività più rare come una vacanza o un viaggio o un servizio particolare) è facile coprirle usando via via il mezzo più adeguato, perché anche le mete intermedie sono dentro a un tutto organico, non perse nel deserto come il distributore del film «Baghdad Café», vero surreale simbolo della segregazione automobilistica, per quanto raccontata in termini poetici e senza pensar troppo a quel che lo circonda. Più città, più umanità, e meno marchingegni a ingranaggi, insomma: per sopravvivere e soprattutto vivere, come ci meritiamo, da qui a lì, e oltre.

Su La Città Conquistatrice altre considerazioni e collegamenti al rapporto World Resources Institute: Cities Safer by Design

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