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Sabato, 20 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Dopo gli orti urbani, gli orti di urbanizzazione

Un tempo l'espansione urbana veniva praticata e vantata come vera e propria virtù, per esempio con quartieri di edilizia pubblica e sovvenzionata collocati a bella posta a una certa, anche notevole, distanza dai margini dell'edificato. Col duplice effetto (si diceva allora e a volte si rivendicava duplice «vantaggio») di risparmiare sull'acquisto dei terreni per i nuovi quartieri e le opere di urbanizzazione, e innescare per il semplice fatto di averli in qualche modo inclusi nella città, la valorizzazione dei terreni nella fascia intermedia, fra i nuovi quartieri e i vecchi margini della città esistente. Innescando così una serie di economie che avrebbero rapidamente condotto alla saldatura, alla colmata urbana per così dire. Ma era anche l'epoca in cui, dal mondo conservazionista e dal primissimo ambientalismo, arrivavano le prime decise critiche a quella che si chiamava «espansione isotropa a macchia d'olio», e in molti casi specie là dove più vivo era il dibattito sulla formazione di grandi aree metropolitane si recuperavano i classici modelli della crescita e decentramento pianificati, specie introducendo le discontinuità dei parchi tutelati, secondo la forma vuoi delle cosiddette «green belt» a mantenere separate le espansioni successive, vuoi dei cunei verdi metropolitani, a costituire elemento di continuità fra i grandi spazi aperti regionali e quelli minori ormai circondati da case e fabbriche.

Naturalmente il senso di quella modellistica stava nel termine «tutelati», più che in quello genericamente «green», vale a dire che il riferimento agli assetti territoriali e ambientali non era tanto visuale e ideologico, ma ben radicato dentro a obiettivi di lungo periodo. Oggi siamo addirittura arrivati, sviluppando la medesima modellistica, alle cosiddette infrastrutture verdi, ovvero a una seppur parziale e graduale sostituzione, della tradizionale armatura metropolitana tutta fatta di strade, tubi, cavi, condotti, cordoli, con componenti in tutto o in parte naturali, che svolgono ruoli identici o analoghi a quelli delle strutture classiche, con l'aggiunta di essere vive, reattive, auto-riparanti, e di far molto più efficacemente sistema. La cosa forse più importante è che (come sempre avviene in fondo in natura) esiste tra la dimensione molto grande e quella molto piccola un legame diretto e immediato, che però nel caso specifico della rete metropolitana deve essere mantenuto tale capendo e sviluppando i ruoli specifici, delle componenti. Esiste così il verde territoriale a scala regionale, dove si mescolano gli spazi aperti agricoli e non, quello più marcatamente produttivo/organizzato ai margini delle zone edificate a sua volta frammisto ai parchi urbano-metropolitani tradizionali, ed entrando più nel fitto della trama urbanizzata e storica, i giardini, gli orti di quartiere, e in futuro probabilmente le forme «naturali-artificiali high tech» sviluppate anche in verticale.

Ma appunto, a ciascuno il proprio ruolo dentro il tutto. Qualche giorno fa dentro lo spazio agricolo di prossimità milanese, è sbucato almeno virtualmente un incistamento improprio, in forma di stravagante progetto di «architettura green»: una serie di orti urbani (sono molte decine) naturalmente completi di piccoli edifici di servizio, strutture di accesso e sosta, reti tecniche per l'acqua, la corrente elettrica. Se osserviamo i classici rendering proposti dallo studio, e proposti anche all'approvazione formale degli uffici municipali, l'improprietà pare abilmente camuffata dal solito trucco grafico, che minimizza gli elementi di attrito mettendo in risalto tutto ciò che invece attira. Quello che si vede, in sostanza, è il sovrapporsi alle grandi campiture verdi dei campi, quelle più piccole ma altrettanto verdi degli orti, a cui si aggiungono le sagome dei presumibilmente soddisfatti neocontadini urbani da fine settimana. Ma è davvero così? La sensazione è che quel progetto, sotto sotto, vada a stravolgere con un espediente tecnico-ideologico (l'orto urbano, molto di moda, è comunque classificato come forma di coltura agricola) la stessa destinazione d'uso urbanistica di una vasta area di greenbelt, trasformandola in tutt'altro e facendole perdere esattamente il ruolo di cuscinetto fra aree urbanizzate teorizzato sin dagli albori del XX secolo, se non prima. Osservato da quella prospettiva, il progetto degli architetti sembra, è, una lottizzazione suburbana che si sovrappone ai campi, affianca una all'altra una miriade di piccole superfici a giardino, semplicemente in attesa di poterle «densificare» con qualche bella schiera di case. Naturalmente, ci diranno allora, per «rispondere all'urgenza».

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