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Giovedì, 28 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Houston, avete parecchi problemi, ma anche noi

È inevitabile, automatico, che quando una catastrofe naturale si abbatte su un territorio immediatamente dopo esplodano (o si rinnovino con vigore) tutte le polemiche di chi per un verso o per l'altro è portatore del classico «noi lo dicevamo da sempre che andava a finire così». Si sta ripetendo apparentemente, questo modello, anche nella Houston gravemente colpita dall'uragano, ma nel caso specifico c'è qualcosa che va molto oltre le pur radicali critiche a ciò che «non ha funzionato» nella gestione del territorio urbano. E per un motivo assai singolare: tutto a Houston a suo modo ha funzionato benissimo, al punto da farne da molti anni un vero e proprio paradigma-fiore all'occhiello dell'idea di città liberale, con i suoi tassi di crescita demografica (e di espansione fisica assolutamente dispersa) a due cifre. Intendiamoci, il funzionare benissimo riguardava tutto ciò che piace a certi lettori delle dinamiche territoriali a senso unico, quelli che per esempio continuano a confondere i due significati del tutto legittimi della parola «development»: uno vuol dire propriamente sviluppo umano, sociale, economico, così come ne parliamo a proposito di sistemi nazionali; l'altro assai più terra terra vuol dire solo edilizia e trasformazioni del territorio connesse, tutte cose che certo un po' se ne trascinano, di altro sviluppo più generale, ma sono tutt'altro.

È su quello «sviluppo del territorio» mal tradotto e bella posta con Google, che ad esempio tanta parte della nostra destra italiana (e non solo la destra) ci ha rivenduto autostrade inutili, capannoni vuoti, quartieri fantasma che rispondevano appunto al «development» autosufficiente, creando lavoro solo quando li si doveva costruire, e confidando per il resto nella cosiddetta Mano Invisibile del Mercato, che molti cattolici di ispirazione liberista confondevano e confondono con la Divina Provvidenza. Quella che chissà perché dovrebbe proteggerci anche dalle catastrofi naturali rese micidiali proprio da questo modo di considerarla, la natura: semplice piattaforma su cui appoggiare scatoloni di cemento e strisce di asfalto, che fanno tanto tanto sviluppo, quello che si legge nelle tabelline dei conti correnti di qualcuno, o nelle statistiche di certi settori e comparti, ma non certo nella vita delle persone o nel loro rapporto coi luoghi. Ecco: Houston era il trionfo di questo approccio, sventolato come simbolo tangibile del sogno americano, il quale sogno americano nella mente di qualche bel tomo destrorso, accademico o politico che sia, significa sostanzialmente consumare molto, moltissimo, nel segno della Famiglia e naturalmente dell'Impresa, secondo una caricatura del già fosco scenario dipinto negli anni '50 dal best seller mondiale «L'Uomo dell'Organizzazione».

Per crescere così, su questo modello, si deve badare esclusivamente a quegli aspetti: la casa economica «accessibile a tutti» lo è solo perché non vale nulla, è cacciata chissà dove, è vicina a nulla salvo qualche altra casa uguale abitata da gente uguale (o magari disabitata per anni e anni come dopo la bolla immobiliare); ma questo è un pregio per i nostri sviluppisti, che ci vedono una bella occasione per venderti una macchina, o due, o tre, ettolitri di benzina, il congelatore grosso come un capanno degli attrezzi dove tenere metri cubi di scorte comprate al centro commerciale distante trenta chilometri; e poi altre migliaia e migliaia di chilometri per andare a lavorare downtown, a portare i figli a scuola dall'altra parte dell'area metropolitana, o a curarsi al centro medico specializzato rigidamente segregato dentro il «Quartiere della Salute e della Ricerca», un'ora e mezza se non si incappa nell'ingorgo trappola, altrimenti sono dolori. Ma ci si può sempre fermare a scaricare i nervi e mangiare qualcosa al Freeway Business Center, che poi potrà ostentare i suoi conti prosperi …

L'ambiente, in questo contesto, semplicemente non esiste: non esiste il problema del cambiamento climatico che fa a pugni con il «legittimo diritto all'intrapresa» di petrolieri e comparto automobilistico-autostradale; non esiste il problema del consumo di suolo o della perdita perenne di risorse naturali che tanto si considerano comunque disponibili grazie ai trasporti (a petrolio); non esiste il problema dello stile di vita e delle aspettative di individui e nuclei familiari, considerati in questa specie di contabilità aziendale solo consumatori, gente che esiste solo quando compra qualcosa o scambia lavoro con reddito. Un Eden da economisti neoliberali che negano l'evidenza, anche dopo il disastro dell'uragano Harvey, mandando in campo le quinte file delle discipline territoriali a spiegare come «non è vero che la colpa sia tutta della mancanza di un piano regolatore», e che in effetti a Houston si fa urbanistica. Peccato che si tratti di un modello di urbanistica appunto appoggiato acriticamente su quella famosa idea di sviluppo, confusa, coi paraocchi, che ci portiamo appresso da quando negli anni '70 del secolo scorso a qualcuno venne in mente di imporre al mondo la cultura contabile, che unica garantisce felicità eterna, a individui, famiglie, imprese. All'ambiente e alla società invece no, ma l'ambiente è un'invenzione dei comunisti, e la società come ci spiegava a suo tempo quell'amica di Pinochet, Margaret Thatcher, «non esiste».

Oltre al mio link tematico a riunire molti articoli, Sprawl segnalo, in negativo, un articolo emblematico del 2008 in cui un economista molto noto e ascoltato anche in Italia (per il suo best seller Il trionfo della Città) cantava le lodi della metropoli texana mecca dello sviluppo, Edward L. Glaeser, «Houston, è New York ad avere un problema»

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