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Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

L'orto urbano è antisociale?

In quest'ultima tornata di feste pasquali, alle ormai solite polemiche sul lavoro festivo o meno in certi giorni nella grande distribuzione (prevalentemente nei punti vendita urbani) si è accompagnato il relativi sollievo perché ormai anche in Italia si va diffondendo la «buona novella» secondo cui starebbe precipitando il consenso collettivo verso il formato del centro commerciale automobilistico novecentesco. In altre parole quella che era stata considerata sino a non molto tempo fa la piazza postmoderna, il luogo attorno al quale si praticava la socialità delle relazioni subordinata a quella dei consumi, parrebbe aver perduto parecchio del proprio appeal. Ma se forse dal punto di vista ambientale può apparire positivo, l'esaurimento di questa spinta propulsiva a sprecare tanti ettari di ottimo suolo per farci degli scatoloni di cemento con attorno un parcheggio, chi gioisce forse non ha letto bene la notizia, magari fermandosi come spesso succede alla copertina e al titolo. Se avesse scorso quell'articolo e quasi tutti quelli che da un paio di decenni l'hanno preceduto, forse capirebbe meglio che non si tratta affatto della vendetta degli amati (da qualcuno) negozi di prossimità tradizionali, bancarelle, chioschi, vie urbane di botteghe ed esercizi vari. Lo shopping mall a scatolone sta infatti tramontando sommerso dalla marea del commercio virtuale, dove in realtà la questione scatoloni non si risolve per nulla, limitandosi a spostarsi da un punto all'altro.

In altre parole, se prima la desertificazione del commercio urbano era indotta dai grossi centri commerciali fuori città, oggi la desertificazione dovrebbe proseguire e anzi accelerare, man mano tutto si sposta verso la nostra tastiera da un lato, e la rete della logistica dall'altro: la nostra tastiera e lo schermo, magazzini, trasporti, consegne a domicilio. Per giunta, come non mancano di raccontarci con dovizia di particolari altri articoli, un po' meno praticati dalla stampa popolare, tutto il mondo della logistica sta cambiando pelle grazie alla automazione, e presto neppure le altre polemiche sul lavoro, quelle sul precariato e la semi-schiavizzazione di certe professioni, dall'autista al magazziniere, inizieranno a «spostarsi nel virtuale» man mano subentreranno robot, droni, trabiccoli vari a gestire direttamente le consegne a noialtri. Il che lascia piuttosto esterrefatti, di fronte alla prospettiva incombente di una desertificazione vera, ovvero stavolta l'evaporazione di tutta la cosiddetta vitalità commerciale dei nostri centri, la gente che va e viene sulle strade per motivi legati al consumo, ai rifornimenti e attività correlate. In pratica è una sorta di crisi terminale della piazza e dell'arteria urbana così come la conosciamo, da un certo punto di vista. Ma tutta questa era solo una lunghissima «premessa collaterale», per porre una domanda non del tutto campata in aria: c'è qualche attività che possa sostituire il commercio come «ancora di socialità-vitalità urbana»?

A ben vedere, oggi, con l'esclusione delle attività lavorative-di servizio che pure si stanno smaterializzando e liberando dalla localizzazione fissa, parrebbe restare solo la ristorazione, intesa come distribuzione di cibo e bevande pronti da consumare sul posto. Ma è sufficiente? Ce la farebbe, da sola, a riempire il vuoto lasciato dai negozi e dalla loro fitta rete di relazioni? C'è chi sostiene che il posto occupato oggi dai negozi potrebbe essere preso da una evoluzione dei punti di consegna di quartiere, che oggi iniziamo a vedere con quegli «armadietti Amazon» alternativi alla consegna a domicilio. Ma anche qui stiamo nell'ipotetico, molto ipotetico: un bar con un armadio fa socialità? Un bar con un armadio con una banca residua, un'attività economica localizzata residua, un servizio residuo? Possibile, ma il buco dismesso da riempire resta ancora enorme. Abbiamo però l'esempio del verde urbano, del parco o giardino come vera e propria piazza di relazione, che funziona da sempre, e che nella logica delle infrastrutture verdi potrebbe costituire una nuova armatura sociale e di relazioni. Introducendo anche attività produttive alimentari, come va tanto di moda e come pare abbastanza eco-logico.

E qui brevissimamente arriviamo al punto del titolo: può funzionare l'orto urbano privatistico individuale (su cui si sono addirittura lanciati alcuni operatori delle lottizzazioni come nuova attività in grado di produrre profitti)? Se diamo un'occhiata comparativamente a quel che succede nelle aggregazioni degli orti urbani, e in un parco delle medesime dimensioni, possiamo constatarlo: si passa da una logica al massimo condominiale, alla socialità piena. Il che pone un problema culturale e di piano-programma a chi sta iniziando a concepire infrastrutture verdi e relativi inserimenti agricoli-produttivi. L'orto-appartamento delimitato e gestito individualmente genera socialità altrettanto delimitata, e certo diversissima da quella urbana (o da quella virtuale del social network se vogliamo allargarci), e pare del tutto inadeguato a riempire l'ipotetico vuoto lasciato dall'evaporazione online e automazione del commercio così come lo conosciamo oggi. E in linea di massima, a questa logica di appartamento dell'orto urbano individuale, sarebbe assai meglio affiancare ampie superfici espressamente destinate a forme analoghe a quelle immaginate via via dagli utopisti di ieri e di oggi, cooperative, collettive, aperte, sia dal punto di vista spaziale, che del lavoro, dell'eventuale profitto, e dell'organizzazione. Meglio prepararsi in tempo e iniziare subito a riflettere, invece di gioire per la vendetta contro lo shopping mall che chiude.

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