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Giovedì, 25 Aprile 2024
Città conquistatrice

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A cura di Fabrizio Bottini

L'uso dell'inglese nella ricerca e la qualità urbana

Infuria ancora, stavolta a livello più alto, la polemica sull'uso della lingua inglese nella ricerca. La questione era emersa prima nel caso dell'insegnamento universitario, contrapponendo (semplifico molto, me ne scuso, ma in questa sede pare più che lecito) chi voleva inserire i corsi dentro un filone di scambi e conoscenze internazionali aperto, e chi operando su questioni molto specifiche, a volte locali, che trovavano senso e documentazione solo in quella lingua, ad essa voleva far riferimento. Ma a monte dell'insegnamento universitario, come noto, stanno gli avanzamenti scientifici che ne costituiscono il contenuto, garantiti dalla ricerca e dai relativi finanziamenti. E adesso la discussione si sposta sulla opportunità di redigere TUTTI i progetti di ricerca, anche quelli di tema specialistico circoscritto locale magari proprio dentro una lingua che non è affatto l'inglese, in quell'idioma considerato dai critici inutilmente standard, artificioso, addirittura inquinante.

Il fatto è, che qui stiamo parlando di metodo, e non di merito, cosa che sfugge probabilmente ai paladini del particolarismo, di quadro generale e non di contenuti, di struttura portante e non di sollecitazioni. E neppure si parla necessariamente della cosiddetta «lingua di Shakespeare» con tutte le sue implicazioni e magari limiti culturali. Nel caso della ricerca l'inglese diventa qualcosa di molto simile ai numeri: strumento tendenzialmente oggettivo perché riconosciuto e condiviso da tutti, per comunicare (più o meno efficacemente) qualcosa di altrettanto condiviso, che quindi liberamente circola, trova sostenitori o critici motivati, e ne esce rafforzato. Se una ricerca vuole approfondire la qualità degli spazi pubblici di Roccacannuccia in relazione agli utenti anziani e disabili che parlano dialetto roccacannuccesco, come posso svilupparla (nel metodo e nelle risorse disponibili) al meglio, se non attingendo al meglio disponibile a scala mondiale? Oggi di fatto gli strumenti tecnologici e della comunicazione, il problema dello spazio pubblico per anziani vernacolari a Roccacannuccia l'hanno GIÀ, proiettato globalmente: si tratta di accettare che ciò avvenga in modo esplicito, e senza trucchetti da baraccone. Il più frequente dei quali è che qualcuno, pescato a caso sul web un lavoro svolto su un altro caso polinesiano, si limiti a ricopiarlo in lingua roccacannuccesee con poche varianti, e rifilarcelo come «ricerca».

Vorrei qui, senza parlare del peccatore ma dilungandomi sul peccato e i suoi effetti, fare un altro esempio. Uno studioso di altre questioni urbane locali, all'epoca delle polemiche sull'inglese nei corsi universitari, con l'intenzione di rafforzare la propria posizione contraria, chiedeva pubblicamente: «come posso spiegare ai miei studenti in inglese e in modo efficace, il concetto di perequazione urbanistica?». Facendosi del male da solo, dato che tutte le sue magari valide riflessioni sull'argomento, svolte in lingua locale e con una prospettiva altrettanto locale, ignoravano di fatto che quella parola, «perequazione», altro non era a sua volta che una pessima traduzione dall'inglese Transfer of Development Rights. Pessima perché strumentale, senza metodo salvo quello di portare di peso dentro una cultura, senza contrappesi e anticorpi, ciò che era stato elaborato in un'altra. Nel caso specifico il diritto a edificare su un terreno, che in alcuni sistemi legislativi e costituzionali storicamente esiste, in altri no. Se le domande di ricerca su quel tema fossero state fatte circolare internazionalmente, e valutate da esperti a quel livello, di sicuro l'equivoco non sarebbe mai nato. Pare cosa ovvia, ma qualcuno da quell'orecchio non ci vuol proprio sentire, magari per non veder dichiarata la propria inadeguatezza.

Un link di riferimento: Elena Cattaneo e Roberta D'Alessandro, L'inglese è la lingua della ricerca, Repubblica online 28 aprile 2018

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