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Giovedì, 18 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La Città Giardinetto?

Di «ritorno alla terra» si parla sin dall'epoca della rivoluzione industriale, quando a tanti osservatori e utopisti appariva chiara la tendenza di certo progresso tecnologico a trasformare tutto il mondo in una specie di grande fabbrica, in cui tutto era meccanicamente regolato dai ritmi della produzione, del consumo, del lavoro. Si intuiva invece la necessità di recuperare un respiro più naturale all'esistenza umana, pur senza per questo rinunciare ai benefici pratici del progresso scientifico. Dai vari esperimenti più o meno riusciti di nuova società e piccole comunità alternative sparse nelle campagne, scaturì verso la fine del XIX secolo il modello della «città giardino riformista», che riprendendo il marchio già noto della casa immersa nel verde anziché nei fumi delle ciminiere, lo univa alla giustizia sociale e al rispetto dell'ambiente: produzione industriale, agricoltura, progresso e giustizia potevano mescolarsi virtuosamente dentro il cosiddetto «decentramento pianificato» degli impianti, della residenza, in piccoli centri circondati da una grande fascia di campi dedicati alle colture a chilometro zero, come le chiameremmo oggi con un fortunato slogan.

A questa famiglia di nuovi modelli di sviluppo, sembra appartenere la proposta di un gruppo di intellettuali di sinistra pubblicata pochi giorni fa sul quotidiano il manifesto, di «Un piano per dare lavoro e riportare alla vita le aree interne, una volta ricche e poi abbandonate, del nostro paese». L'idea non è nuova, e riprende decisamente i temi della cosiddetta «paesologia», che dell'antico ritorno alla terra costituisce una variante specificamente italiana, e più ancora specificamente meridionale: industrializzazione e urbanizzazione novecentesca hanno indotto un abbandono di interi territori, che fanno riferimento ai borghi tradizionali dell'insediamento contadino. Il decentramento pianificato nel caso specifico, anziché avvenire nel solco della tradizione secolare delle città giardino (o delle «new town» britanniche del dopoguerra, variante di grande scala sul tema) con migrazione di industrie e insediamenti nuovi di zecca, avverrebbe nel segno del recupero dei centri storici, e delle attività agricole nei campi abbandonati dalla migrazione urbana novecentesca.

Tra i tanti motivi posti a sostegno di questa tesi, per esempio, i vantaggi per l'assetto idrogeologico del paese, derivanti da una puntuale manutenzione del territorio in queste aree abbandonate, dissesto da cui a volte derivano quegli eventi catastrofici delle alluvioni stagionali. Non manca neppure, a quanto pare, il supporto economico, già delineato tempo fa dall'allora sottosegretariato alla Coesione Territoriale del governo italiano, per attingere a fondi comunitari disponibili in questo senso. Ma c'è un dubbio, un dubbio che va ben oltre la pura osservazione secondo cui tutti i progetti di decentramento pianificato si sono sinora risolti in crisi urbano-territoriali da crisi economica strutturale (le new town morte per deindustrializzazione e caduta del modello sociale), e riguarda il motore umano scelto dai proponenti per alimentare il piano di rilancio dei borghi. Quei territori, quei centri storici abbandonati, quei campi rinselvatichiti e mezzi franati, dovrebbero diventare «una soluzione non contingente né transitoria al problema gigantesco dell’immigrazione». Ovvero il ripopolamento avvenire collocando gli immigrati, in una sorta di accoglienti nuove frontiere dell'integrazione territoriale e sociale.

Ha senso? Per meglio dire, ha senso supporre che una umanità del XXI secolo, che a scala mondiale vede il nostro modello occidentale di urbanizzazione industriale e post-industriale, e lo imita in tutti i modi anche tragici nelle sterminate megalopoli asiatiche o africane, volontariamente si possa relegare dentro un mondo che pare cavato di peso dall'Angelus di Millet, anziché da una clip videomusicale? Perché le utopie che sognano l'uomo nuovo, nella città nuova, dovrebbero innanzitutto trovare la propria materia prima in quel che c'è a portata di mano. Sta qui, il vero dubbio, non certo nella poesia dei borghi e dei campi.

Su La Città Conquistatrice qualche contributo critico su «Immigrazione e territorio».

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