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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La sagra gastromusicale dell'inclusione

È almeno dai tempi della storica trasmissione televisiva Campanile Sera (1959-1962) che il villaggio globale e il cosiddetto sviluppo locale provano a intrecciarsi, con reciproci vantaggi di solito malissimo gestiti dalla politica. Lo schema, con gli ingredienti più o meno mescolati e gli equilibri tutti da decidere volta per volta, funziona più o meno sempre nel medesimo modo: da un bacino territoriale non vastissimo, convergono su un luogo attrezzato per l'occasione (il campo di calcio della parrocchia, l'aia rurale residua non occupata al momento da lavorazioni agricole, ecc.) spettatori-utenti e attività varie, di tipo espositivo, gastronomico, di intrattenimento. Sin qui la parte che non si differenzia affatto da una tradizionale festa del patrono, come quelle che ad esempio ci ha raccontato Grazia Deledda nei capitoli in cui il protagonista di Canne al Vento, Efisio, decide di fare una propria esperienza meditativa di vagabondo On The Road.

La vera differenza, quando si intrecciano gli elementi locali e globali, sta nella miriade di sfumature culturalmente sottese all'immaginario, e fisicamente condizionanti sia la domanda che l'offerta di questi eventi «locali»: dalle canzonette disco music chissà perché proposte in perfetto playback da un gruppetto parrocchiale che scimmiotta improbabili look «blaxploitation», ai prodotti e piati tipici che tipici molto spesso non lo sono affatto, vuoi negli ingredienti base comodamente importati da diecimila chilometri di distanza, vuoi nelle preparazioni e allestimenti, che sempre in una misura o nell'altra strizzano l'occhio alla comunicazione televisiva o oggi anche web.

Ma in sé e per sé non c'è nulla di grave, anche se la cosa spesso infastidisce i puristi del locale, quelli che si ergono a custodi di qualche tradizione ancestrale di solito inventata di sana pianta, o comunque piuttosto improbabile da riprodurre nel terzo millennio, salvo ridurre la sagra a una specie di rito mistico-religioso a cui non andrebbe nessuno salvo quattro gatti fanatici. Quindi ben vengano tutte le possibili contaminazioni, purché dichiarate, consapevoli, e comunque alla ricerca di qualche genere di specificità diversa dal fatto di trovarsi lì e non là. Il chiosco degli hamburger di manioca con polenta, accanto allo stand dei caminetti prefabbricati da un'altra regione, in attesa dello spettacolo bluegrass elettrico in dialetto, o della sfida all'ultimo sangue tra infermiere diplomate nel sollevamento pesi calcolati in libbre e once, vanno benissimo.

Perché svolgono magnificamente quel ruolo di mescolanza tra locale e globale che è il senso stesso dello sviluppo, e coinvolgono a modo loro virtuosamente quel cuore pulsante di ciascuno che è il portafoglio. C'è però un aspetto della globalizzazione che a queste sagre più o meno combinate sfugge quasi sempre, proprio per la ritrosia ad accettare davvero ufficialmente la contaminazione, ed è il mescolare davvero persone e culture, fare cioè vera «inclusione». Qui insorge sempre il lato brutto, orrendo della dimensione locale che Marx chiamava idiotismo della vita rustica, l'incapacità di dialogare con l'altro se non per un vantaggio economico, di accettarlo in quanto tale e non solo come strumento di qualcosa. Certo non dappertutto succede così, e molti sostengono che il diverso, l'immigrato o il rifugiato oggi, tenda a integrarsi un po' meglio nei piccoli centri, nelle località, di quanto non succeda nelle metropoli

Ma quella dimensione localista della sagra forse non fa a sufficienza, non sfrutta quelle sue straordinarie potenzialità, le stesse che un tempo di fatto rendevano addirittura auspicabile l'arrivo per le feste patronali degli oggi quasi odiati nomadi. E ci si domanda perché a nessuno sia mai venuto in mente di puntare anche su questa sottovalutata risorsa per l'integrazione nello sviluppo, che non dimentichiamocelo è prima sociale che economico. Il diverso partecipando da protagonista al mix di globale e locale, magari adeguatamente sostenuto da qualche specifica sponsorizzazione istituzionale, troverebbe qualche spiraglio in più per inserirsi, almeno nell'eccezionalità della sagra. E poi, passata la festa gabbato lo santo? Magari anche no, chissà.

Ringrazio l'amico Facebook Gino delle Donne che sul suo profilo (per motivi di non sistematica critica musicale e di costume) raccoglie uno straordinario campionario di sagre locali

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