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Giovedì, 18 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Lo strabismo del «Com'era, dov'era»

La catastrofe è definita matematicamente da un crollo verticale, e quindi non deve stupire se alle catastrofi naturali corrisponde anche un brusco abbassarsi dei freni inibitori. Con l'ultimo terremoto nell'area appenninica sono stati in parecchi a lasciarsi andare in quel modo, lasciando libero sfogo a certe visioni interne e soggettive del mondo, che di solito vediamo almeno in parte governate e trattenute. Tra le più vistose, spicca certamente la ridda di strida pro o contro quella politica del ricostruire «com'era dov'era» enunciata piuttosto tempestivamente dal governo. I primi a scattare in replica sono stati gli architetti neovetrinisti-novatori, più o meno gli stessi che non perdono mai occasione per prendersela con la «rigidità dei piani urbanistici» e/o l'urgenza di rimuovere qualsivoglia laccio o lacciuolo regolamentare, per lasciare libero sfogo alla creatività. Quell'orientamento della ricostruzione, urlavano a gran voce sventolando a vessillo i propri «rendering», era un modo per ingessare il mondo dentro una cartolina irrealistica, oltre che naturalmente per escluderli professionalmente dall'occasione di lavoro. Speculare la reazione dei conservazionisti, al solito con rovesci di editoriali dei profeti di riferimento, citazioni di qualche immortale articolo della Costituzione già alla seconda riga, e moniti all'incombente catastrofe umana e culturale nel caso si fosse spostata una singola pietra dei borghi aviti, o riappoderato un ettaro di vigneto a terrazze. Le stesse cose devono ritornare, l'ha detto Lui, amen.

Dato che il progresso va sempre salutato con entusiasmo, non possiamo che guardare con speranza a questa evoluzione culturale nazionale, perlomeno ricordando le famose intercettazioni a terremoto dell'Aquila ancora in corso, dove alcuni cinici palazzinari e speculatori si fregavano reciprocamente le mani davanti alle lucrose prospettive di affari sulle macerie e i cadaveri. Stavolta, con molta più trasparenza e contestualizzazione, bisogna dire che i gruppi di interesse manifestano in modo aperto le proprie tutto sommato legittime (anche se difficilmente condivisibili) intenzioni: architetti modernisti pronti a tirar fuori dal cassetto ogni genere di pensate, tecniche o estetiche, come ha tra l'altro invitato ufficialmente a fare per esempio il presidente dell'Ordine di Roma, suscitando un vespaio di proteste degli iscritti; o al contrario cultori della tradizione, restauratori, storici dell'arte, egualmente ansiosi di approfittare dell'emergenza per una grande campagna di «ripristino del patrimonio culturale» in senso lato, che i modernisti chiamano invece presepe pietrificato e sterile.

Forse si può anche partire da quest'ultima parola, «sterile», e provare a inquadrare diversamente la faccenda. Sterile perché non dà frutti, non si sa riprodurre da solo, sta lì a far non si sa bene cosa salvo sbandierare quella nitida sterilità e formale compostezza fine a sé stessa. Di cosa si sta parlando? Esattamente di quel che entrambi gli schieramenti riassunti sopra chiamano ricostruzione, inopinatamente ed erroneamente identificandola con la ricostruzione edilizia, col ripristino o trasformazione urbanistica, infrastrutturale, il restauro, il rilancio qualsivoglia di ruoli e funzioni. Mentre invece quel che secondo le scelte per ora maggioritarie governative dovrebbe restare «com'era dov'era» è quanto la vulgata chiama di solito Genius Loci, spirito del territorio, di cui le pietre, antiche o moderne che siano, sono solo una delle tante espressioni. Ma il cui lascito principale e più tangibile sono invece gli intrecci sociali, le relazioni, le attività, gli equilibri di potere cangianti, insomma tutto quanto chiamiamo tessuto locale. Quello, resta lì, perché quando lo levi, quando decidi di fare le new town per compiacere certi amici (o per automatismo da sicurezza, o chissà perché) il resto evapora, oppure si trasforma in tutt'altro, al massimo un bel guscio da riempire, manco fosse un regalo a sorpresa. Com'era dov'era significa decidere cosa vogliamo fare qui e ora, dopo tutto quel che c'è stato prima, e con chi c'è. Della qualità degli intonaci, dei serramenti, dell'intangibilità o meno della pieve avita, lasciamo parlare eventualmente i superstiti: dove sono, come sono.

Su La Città Conquistatrice una nota diciamo così «scientifica» sulle basi socio-territoriali di una ricostruzione com'era dov'era non campata per aria.

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Lo strabismo del «Com'era, dov'era»

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