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Giovedì, 25 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Panico tra gli steccati bianchi

Ci sono cose che da sempre rappresentano una certezza, l'ancora di salvezza nel mare in tempesta della vita, e una di queste è certamente la casa a vita, o meglio ancora il «paese». Non è un caso se dalle nostre parti è sorto addirittura il movimento per la cosiddetta «paesologia», il quale di logico pare avere abbastanza poco (è pure dichiaratamente di ispirazione soprattutto poetica e visionaria), e più in generale vanno di gran moda tutte le ricerche di radici, di quelle piccole patrie che la cultura germanica chiama «heimat», o cose analoghe: rassicurazione nel mare in tempesta, porto sicuro per l'anima. Ma forse l'anima farebbe meglio a cercarsi rifugi più adeguati alla propria natura squisitamente immateriale, visto quel che succede nella realtà ai posti reali, anche a quelli considerati eterni e immutabili. 

Il classico sfondo da American Dream per esempio, quello che in pratica dalle idee antiurbane dei padri della patria, da Thomas Jefferson in giù, rappresenta la meta ideale di chiunque voglia sentirsi in pace col mondo: una casa, un giardino, uno steccato bianco a ricordare sempre il vecchio adagio «good fences make good neighbors» (ci vuole una solida recinzione per coltivare ottimi rapporti di vicinato: insomma ognuno a casa propria). Ecco, oggi ai margini di quel sogno si è ammassato un cupo incubo, che inizia già a filtrare sotto lo zerbino, e ce lo dice molto chiaramente quella ascoltatissima fonte mistica rappresenta dal «mercato».

Ci sono ormai infiniti articoli anche sulla stampa di informazione corrente statunitense, che ripercorrono tutti il medesimo schema, salvo il nome degli intervistati e dei luoghi geografici: il giornalista fa una premessa sul sogno suburbano di tante generazioni, mentre idealmente si inoltra in auto a un'ora più o meno dalla grande città dove si pubblica il suo giornale, e in genere guidato da un abitante dei luoghi, o da un agente immobiliare gira per i quartieri, tra i cartelli VENDESI ormai un po' pencolanti a volte, nei giardini spesso invasi da erbacce o addirittura alberelli cresciuti spontaneamente. 

Finché quelle «strade sdentate» stavano troppo fuori mano, o nel pieno della crisi immobiliar-finanziaria dei pignoramenti, dei cantieri lasciati a metà, in fondo anche questi articoli si concludevano con la classica versione locale del nostro «ha da passà 'a nuttata». Ma ormai, come ha rilevato per ultima Alana Semuels su The Atlantic un paio di giorni fa: «pare che nessuno voglia più abitare nel suburbio», e gran parte di chi ancora ci sta, lo fa semplicemente perché non riesce a vendere (non riesce a vendere al prezzo che intende minimamente adeguato) la propria casa, e trasferirsi in città: The Place To Be.

Perché sostanzialmente di questo si tratta. Non è solo la moda hipster di girare come scemi vestiti in un certo modo con un bicchiere in mano per quartieri altrettanto artefatti coi localini trendy, ma ci sono le imprese, le grandi imprese e tutto l'indotto che si trascinano, ad abbandonare alle erbacce i propri quartieri generali suburbani, quelle astronavi al centro di un parco al centro di uno svincolo, verso cui veleggiavano ogni mattina migliaia e migliaia di satelliti in forma di automobile con un solo occupante, pronti a una giornata di full immersion nell'ambiente claustrofobico dell'Organizzazione. 

Oggi le imprese riscoprono invece il fatto, del resto piuttosto noto e ovvio da secoli, che l'aria della città (una volta ripulita dagli eccessi di inquinamento e altro) non solo rende liberi, ma rende anche più svegli, creativi, in una parola produttivi che è quel che interessa a chi guarda i bilanci. E l'aspetto dei posti di lavoro di fascia superiore, si affianca a tantissimi altri nel determinare la crisi verticale di quei quartieri degli steccati bianchi, anche di quelli di lusso, di case a cinque camere da letto con piscina e sala proiezioni, che le nuove generazioni scambiano volentieri con un monolocale giusto sopra la strada della movida, dove non c'è bisogno dell'auto per andare in ufficio o all'università, e per fare tantissime cose in fondo non c'è neppure bisogno di muoversi, basta digitare su un touchscreen. 

Il panico tra gli steccati bianchi avrebbe meno motivo di esistere, in fondo, se ci si fosse premurati di ascoltare chi da parecchio tempo (in realtà fin dagli anni '60) indicava i limiti insuperabili di quel modello, ma per esempio anche sui gusti dell'ultima generazione di Millennials si è continuato ad «aspettarli al varco»: quando metteranno su famiglia, pensavano in tanti, torneranno sulle orme suburbane dei padri e dei nonni. E invece no, magari cambiano stile di vita e preferenze spaziali, ma pur sempre di orientamenti urbani si tratta. Forse sarà ora di cominciare a pensare seriamente, a dismettere (e magari trasformare radicalmente), quelle piccole false patrie: il Sogno Americano era un altro, e ben altro. Cerchiamo di non cascare anche noi in qualche equivoco del genere, magari col ripopolamento coatto dei borghi abbandonati: la società va avanti, non indietro.

Su La Città Conquistatrice anche il link a uno dei più recenti studi (dell'agenzia Avison Young) sul tema città-suburbio-mercato 

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