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Sabato, 20 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Scuola di polizia

La tragica scia di morti degli eventi parigini, anche al netto delle piccole vanità personali ostentate nella varie manifestazioni successive, forse qualche importante effetto culturale l'ha suscitato: il dubbio, almeno quello, che la questione della banlieu non sia né un problema di ordine pubblico come pensano tutti i destrorsi, da Sarkozy a Rudy Giuliani ai neofascisti vari d'Europa, né una cosa che si risolve cambiando forma alle case, alle panchine, alle fontanelle nei parchi, come ribadiscono da un paio di generazioni i nostri architetti. Perlomeno, visti i risultati evidentemente fallimentari di entrambi gli approcci, si tenta qualcosa di più complesso e articolato, per molti versi tornando alla situazione precedente l'eccessiva invadenza di certa urbanistica estetizzante. Quando, al culmine dell'esplosione urbana industriale a cavallo tra XIX e XX secolo, ci si interrogava sul futuro auspicabile della città, o meglio sul ruolo degli esseri umani dentro la mostruosa megalopoli macchina che si erano costruiti attorno, e continuavano a costruirsi.

Gli studi della nascente sociologia urbana iniziavano a individuare in modo meno casuale certi fattori di identità e idea di spazio locale in grado di promuovere integrazione, inclusione, relazioni magari conflittuali ma dotate di sbocchi positivi. Notavano anche una certa (ovvia e spontanea, per certi versi) tendenza di alcune parti di città a organizzarsi virtuosamente attorno a dei fuochi, un po' come un tempo i villaggi si raccoglievano attorno alla religione e ai suoi simboli e spazi. Questo fuoco nella città moderna era l'edificio scolastico, inteso come erogatore di servizi culturali, istruzione, e anche di altre cose come le assemblee o i comizi elettorali o i club di quartiere, o le urne delle elezioni quando si tenevano. Quel luogo era anche il centro fisico del suo raggio d'azione, la disponibilità a spostarsi da casa fin lì a fare qualcosa definiva le dimensioni di un “quartiere”, ovvero di una camera di compensazione fra la dimensione individuale-familiare e quella urbano-metropolitana propriamente detta. Notare come si mescolavano, indissolubili e indistinguibili in questa idea di quartiere, i due elementi del contenuto e del contenitore, ma poi arrivarono gli architetti e la loro urbanistica: a ogni funzione segue una forma, uno spazio specifico, dobbiamo funzionare efficientemente così come funziona la macchina industriale che ci sta attorno.

Nacque la cosiddetta “unità di vicinato” o quartiere autosufficiente, modello per le periferie urbane di tutto il mondo per generazioni. Quel quartiere autosufficiente prendeva spunto dagli studi sociologici originari, ma se li lasciò rapidamente alle spalle cercando una logica solo spaziale e urbanistica, dentro cui i contenuti sociali e culturali arrivavano poi, a volte molto dopo e molto casualmente. Abbiamo così dedicato tantissimo tempo ed energie, come società, a costruire contenitori senza pensare al contenuto, anzi facendo sì che quel contenuto peggiorasse sempre di più, un po' come se un cuoco comprasse pentole sempre più moderne e tecnologiche, ignorando platealmente quel che ci butta dentro a caso. La prevalenza rigida del criterio “a ogni funzione corrisponde uno spazio” ha fatto il resto, creando quartieri in forma di vasi non comunicanti, dove l'unica forma di vita era un amalgama chiuso, aggressivo nei confronti di tutto il resto.

Oggi, sulla spinta degli eventi tragici di Charlie Hebdo, il governo francese prova a staccarsi dal solito approccio immobiliarista-poliziesco della destra mondiale, imboccando un percorso che da un lato riporta al centro la cultura e la cittadinanza, dall'altro modifica quello dell'originaria sociologia urbana novecentesca. Potremmo chiamarlo, per fare una battuta di alleggerimento, Scuola di Polizia, dove la scuola non è più semplicemente un complesso fisicamente al centro di un quartiere pensato dagli architetti, ma soprattutto l'istituzione che comunica valori civili, inclusione, eguaglianza. E, come ci raccontano le ripartizioni degli investimenti stanziati dal governo Valls, anche la polizia stavolta non significa direttamente repressione, nello stile della “teoria della finestra rotta” caro alla destra. Polizia sarà intelligence, conoscenza di ciò che si muove nei bassifondi: certo siamo un po' lontani dagli antichi sociologi urbani che volevano capire in senso scientifico e progressista, ma a quanto pare dopo un secolo di errori da qualche parte bisogna pur partire, accontentiamoci della Scuola di Polizia, anche se non fa tanto ridere.

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