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Martedì, 16 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Il terrore della bicicletta antisociale

Quante volte ci è successo nelle nostre giornate di ciclisti urbani abituali di essere malamente apostrofati da qualcuno che pretende di «insegnarci l'educazione» direttamente da ciglio strada? È diventato un incontro quasi abituale e messo nel conto della quasi normalità, quello con la signora che strilla all'aggressione perché le passiamo lentissimi e cauti sul marciapiede a un metro di distanza per raggiungere uno scivolo, o con il classico energumeno che si sente defraudato sorpassandolo a destra in fila al semaforo e sfiorandogli il sacro retrovisore di plastica piazzato a ridosso dei veicoli parcheggiati. Perché si comportano così? Gli abbiamo fatto qualcosa di male? La risposta corrente e abbastanza spontanea, suona: certamente no, noi di persona non gli abbiamo fatto alcun male, ma probabilmente i nostri bruschi interlocutori da marciapiede ci stanno collocando d'ufficio dentro una tribù aggressiva di ciclisti con cui hanno un conto in sospeso. Sfogano con noi la frustrazione accumulata per comportamenti impropri, pericolosi, messi in pratica da altri ciclisti. Almeno questa è la spiegazione immediata, ma ne esiste probabilmente un'altra meno consapevole e profonda, dato che questo «detestare la tribù dei ciclisti» si manifesta oggi apparentemente anche là dove i ciclisti sono da sempre una presenza comune accettata, anzi la maggioranza della popolazione ciclista lo è o lo è stata per lunghissimo tempo.

In un articolo pubblicato dall'americano The Atlantic e riproposto nel numero del 4 luglio 2018 dal nostro Internazionale, l'autrice Olga Mecking racconta come «Le cargo bike hanno cambiato il volto di Rotterdam», ovvero di una città dell'Olanda, paese noto per la sua solida cultura ciclistica popolare e urbana. E si tratta di un cambiamento a molte facce, che (almeno a sentire la sensibilità tutta statunitense della narrazione) sfiora i temi sociali della gentrification pur in una versione guidata e pianificata dalla pubblica amministrazione, e poi naturalmente allarga il campo della mobilità sostenibile, della distribuzione commerciale metropolitana, degli stili di vita di nuove generazioni. L'aspetto più interessante però è che quelle cargo-bike citate nel titolo finiscono per diventare un vero e proprio status symbol identitario, essendo utilizzate ben oltre il trasporto professionale delle consegne, dalle famiglie per i figli, la spesa eccetera. In pratica succede con un certo genere di mobilità dolce il medesimo processo di quella meccanica, per esempio col fuoristrada familiare suburbano e con le sue cubature proporzionali al reddito e posizione sociale dei proprietari, quando si piazza davanti al cancello scolastico nell'ora di punta a pretendere precedenza. Lo stesso avviene con questa sua versione urbana a pedali, egualmente griffata, esclusiva, invadente più in forma virtuale che fisica, ma con effetti analoghi di percezione ed esclusione.

Tutto per via di quell'idea di trasporto in bicicletta che evidentemente anche in Olanda, patria riconosciuta del ciclismo popolare contemporaneo, finisce per seguire il filone ideologico consumista assurdamente importato dagli Usa, e che coinvolge Associazioni tematiche, mondo produttivo e rete distributiva che le sostengono, oltre naturalmente alla politica che li individua strabicamente come referenti privilegiati. Finendo per risucchiare poi in qualche modo, da quella punta visibile dell'iceberg in giù, tutto il mondo che invece la bicicletta la usa e basta dentro una tribù di appartenenza virtuale, così definita dagli osservatori esterni. E torniamo al principio, quando la signora neppure sfiorata sul marciapiede esplode in urla contro i «ciclisti assassini rispettate il Codice della Strada»! Ce l'ha con te non perché le hai fatto qualcosa, ma perché appartieni al medesimo gruppo terroristico dei ragazzini a scatto fisso che lì in effetti scorazzano piuttosto ingombranti, o alle mamme olandesi che si sono comprate l'appartamento fighetto nell'ex quartiere popolare portandoci gentrification ed espulsione e girano con le cargo-bike per moda, o ai ricchi giovani bianchi della creative class che sfrecciano nei quartieri neri poveri sulle loro due ruote costosissime, araldi di vere e proprie deportazioni, o magari di sole piste ciclabili che però toglieranno posti a parcheggio, a quelli che hanno ancora come status symbol appena arraffato la vecchia novecentesca automobile, e non vogliono certo mollarla. Una guerra tra bande facilmente evitabile, se si guardassero le cose per quello che sono, senza la lente deformante di certa ideologia. Possiamo almeno provarci, a ripescare una idea di abitabilità e mobilità generale, meno legata a questo integralismo modaiolo buono per i soli gonzi?

La Città Conquistatrice – Piste Ciclabili

Olga Mecking, «Le cargo bike hanno cambiato il volto di Rotterdam», Internazionale, luglio 2018 
 

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