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Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Quando un uomo con il fucile (eccetera)

La proprietà sarà pure da un certo punto di vista il motore del mondo, ma come tutti i motori scarica puzze e schifezze fetenti, non è da prendere troppo sul serio, e va abbandonata a sé stessa quando si fa troppo ingombrante e pericolosa. Ma vallo a spiegare a chi ne ha fatto, più o meno consapevolmente, una specie di religione integralista. Fra questi, spiccano di sicuro i cultori del territorio locale in senso lato, ma anche in senso molto stretto, quelli a cui da piccoli è stato iniettato il dogma della gerarchia delle patrie su cui si regge l'intero universo, ed evidentemente non sono poi stati in grado di produrre da soli degli anticorpi per riequilibrare gli effetti nefasti di questa cosmologia. Parlano di comunità, ma la confondono volgarmente con la proprietà, da difendere con le unghie e coi denti. Perché di cos'altro si tratta, ogni qual volta leggiamo delle forti identità locali, la valle, il crinale, il piccolo o medio centro idealmente riunito in assemblea attorno alla sua piazza, e scendendo di gerarchia i casolari, le immancabili «linde file di villette con giardino» che ci racconta sempre la stampa nelle pagine di cronaca nera, e dietro la siepe la famiglia, le imprese familiari, le camerette dei ragazzi coi poster dei cantanti, le tavernette delle festicciole e del laboratorio magari in nero ma lo sanno tutti, le tensioni che si sa ci sono sempre e domani è un altro giorno.

C'è un modo di dire che riassume magnificamente questa schizofrenia comunitario/proprietaria, ed è: «good fences make good neighbors». Letteralmente, i migliori vicini sono quelli da cui ci separa una solida recinzione, un po' meno letteralmente il famoso «padroni a casa nostra» che forse qualche campanello in più dovrebbe farlo suonare, almeno in chi prova a riflettere sulle cose. È il sostanziale rifiuto dello spazio pubblico, delle infinite camere di decompressione e adattamento che in una società complessa dovrebbero essere l'aria che respiriamo che che ci consente di affrontare qualunque sfida, confrontandosi con ciò che è diverso da noi, così come dobbiamo, obbligatoriamente. La distinzione, la diversità, il conflitto anche fastidioso e aspro, non significano dividere tra un bene e un male in lotta mortale, soprattutto quando si tratta di scontri di piccola entità, su cui tutti dovrebbero essere ragionevolmente informati, specie oggi che le reti sociali e mediatiche coprono in modo pervasivo, esattamente scavalcando e in fondo negando quelle «solide recinzioni».

Se esiste qualcosa che da sempre distingue la società urbana da quella tradizionale rurale o più recentemente suburbana, è proprio questo diverso (a volte radicalmente, diverso) atteggiamento nei confronti della diversità e dei flussi dall'esterno. Un'idea opposta di relazione e «integrazione», che da un lato accetta l'altro in quanto tale, dall'alto condiziona una sospetta tolleranza all'accettare di confondersi dentro le regole locali, in quanto eccezione che le conferma. E se si sgarra da questo codice, unica risposta sarà l'ostracismo, l'esclusione, la cacciata insindacabile, anche con metodi tanto violenti quanto acriticamente sottoscritti da ogni membro a pieno titolo della «comunità»: intollerabile, che si scavalchino le recinzioni, simbolo e sostanza di quella tregua armata che qualcuno chiama convivenza. Questo è accaduto, nell'ultimo caso di omicidio «per legittima difesa» nelle campagne lodigiane, indipendentemente da come le indagini ricostruiranno la dinamica dei fatti, il colpo sfuggito o meno accidentalmente. È quello schierarsi militare di tutti sulla linea dello steccato, ciò che conta, e che incombe su qualunque idea di società vagamente moderna, non immersa nella paranoia dell'identità e dei recinti.

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