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Martedì, 16 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

L'Architetto ha perso il treno?

Secondo la fede integralista libertaria nella mano invisibile del capitale (comoda versione contabile della divina provvidenza), il cosiddetto valore sociale dell'impresa non deve essere oggetto né di principi, né di regola alcuna: esso esiste in sé e per sé, perché è il capitale a contenere l'universo, e non il contrario. Nella versione soffice tranquillamente accettata anche da sedicenti «esponenti della sinistra», questa fede si declina secondo il cosiddetto buon senso della casalinga, ovvero che quando c'è la trippa, poi automaticamente anche i gatti sono felici, mentre per converso affermare in astrato i diritti del gatto sarebbe inutilmente masochista, se non si pensa prima alla trippa. Ma questo apparente approccio terra terra non si accorge di fare il paio con chi alla fin fine se ne frega, dei potenziali beneficiari, puntando tutto all'assoluto, al sacro del pareggio di bilancio inserito nelle costituzioni, alla felicità certificata da un bancario.

Devono essere cocktail di pensieri del genere, ad aver ispirato le recenti dichiarazioni di un archistar internazionale, erede di una prestigiosa griffe del settore, quando afferma in sostanza: ma chi se ne frega di quegli improbabili obiettivi sociali del progetto di trasformazione della città, quelli non sono fatti miei, ci devono pensare altri, io produco Arte, e quella non me la potete imbrigliare con gli assurdi lacci e lacciuoli della giustizia ambientale, del diritto alla casa! L'arte è un valore assoluto, e se ha bisogno di sostentarsi con il venture capital più cinico e speculatore si tratta di un caso, ininfluente, lasciate che mi occupi dei fatti miei, come devo. A suo modo, coerente.

Ma, insorgono altri esponenti del medesimo speculare mondo della «architettura progressista», non si possono fare sparate del genere, noi da un secolo e passa stiamo responsabilmente contribuendo, in quanto premiata e riconosciuta categoria dello spirito progettuale, a costruire esattamente la città giusta, sana, efficiente, patria dei diritti e della democrazia! Taci, traditore della causa, i veri architetti siamo noi. E chiamano implicitamente a testimoni, generazioni di prestigiosissimi studi, del passato e non solo, impegnati in grandi programmi per la realizzazione di quartieri popolari modello, luoghi per il tempo libero e la cultura aperti a tutte le classi sociali, vere e proprie macchine spaziali per far decollare verso vette un tempo impensabili l'emancipazione umana dalle miserie delle epoche oscure. Pur con tutte le riserve sulla perfezione di quegli antichi progetti, che non a caso hanno suscitato infinite polemiche (la destra liberista le ha sempre cavalcate, come con la «questione banlieu»), non si può certo negare, quella lunghissima stagione. Ma non possono però non tornare in mente certi dettagli del connubio fra progetto e strategia, che si dispiegano sin dalla notte dei tempi.

Prendiamo, per fare un esempio notissimo – e notoriamente contraddittorio - tra gli altri, la strana coppia Ebenezer Howard-Raymond Unwin. Uno politico riformista, l'altro architetto progettista, insieme elaborano il concetto di città giardino moderna, e lo lanciano nell'orbita della storia umana, ma salta all'occhio anche come quell'avvenire non sia leggibile senza la prospettiva del passato: da un lato il contenitore riformista, dall'altro il contenuto progettuale, di cui in fondo entrambi son in qualche modo protagonisti. La riforma è il motore, lo spazio il carburante, e la macchina che romba verso l'avvenire saremmo noialtri: cosa conta di più? Difficile dirlo in modo semplificato, ma certe gerarchie, così a spanne, paiono perlomeno intuibili, anche nell'origine dei difetti. E il medesimo schema possiamo applicarlo poi alle migliaia di connubi più o meno virtuosi analoghi, in cui una idea di società incrocia un progetto architettonico-urbanistico, a volte addirittura col medesimo protagonista umano che saltella da un ruolo all'altro e confonde un po' le acque.

Le confonde, esattamente come fanno quelli del pareggio di bilancio in costituzione, o del valore sociale dell'impresa già insito nel fatto di produrre ricchezza, mescolando in un torbido minestrone i fini coi mezzi. Il progettista produce idee di spazio, per produrle ha bisogno di un committente specifico, in grado di mettere in campo delle risorse, e questo committente può essere privato, pubblico, individuale, collettivo. Da quel connubio nasce tutto, ma la connotazione non la danno certo i disegni, o la loro qualità, o le intenzioni di chi li fa. A Milano da qualche tempo è in corso una polemica, locale ma di qualche valore anche generale, fra architetti sulle trasformazioni della città: qualcuno crede che la sua Arte abbia valore assoluto, e sia in grado nelle mani di qualsiasi committente di trasformare l'obiettivo di arricchirsi in qualità urbana che poi si riverserà felicemente sulla società intera. Ci sono altri che, come nel caso della polemica con l'archistar globale sprezzante degli obiettivi sociali del progetto, si appellano alla collettività, convinti che solo da lì possa nascere una strategia spaziale riformista e sostenibile che poi si traduce in progresso per tutti. Oggi, oggetto specifico del contendere (ma non è la prima volta né sarà presumibilmente l'ultima) sono gli scali ferroviari, centinaia di migliaia di metri quadrati centralissimi, preziosissimi, su cui si puntano gli occhi di tanti con vari obiettivi. La domanda, vista da fuori, suona: ha più valore sociale il connubio architetto-capitale, oppure quello architetto-cittadini? E non ha una risposta così ovvia e automatica, si badi bene. Provate a giudicare voi, da soli, leggendo il testo di questa petizione. Forse vi farà riflettere.

Appello sugli Scali Ferroviari

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