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Venerdì, 19 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Scontri di inciviltà urbana all'ombra delle insegne commerciali

Un razzista è uno che si ritiene migliore di te «a prescindere», e non migliore in quanto individuo, ma in quanto gruppo: tu appartieni alla specie inferiore e lui a quella superiore. Naturalmente questo razzismo, come tutte le cose, pur mantenendo pur sempre una propria essenza perniciosa e inaccettabile, si differenzia moltissimo nelle proprie manifestazioni. La peggiore è senza dubbio quella politica e istituzionale, di legittimare ogni forma di discriminazione sulla base del «principio razzista» ridotto burocraticamente a un indelebile odioso marchio registrato. Ma restano quelle manifestazioni di aggressiva intolleranza, certo di grado inferiore e comunque espressione del medesimo sentimento, del tipo che vediamo manifestarsi nelle nostre strade ogni giorno, sotto varie forme che vanno dall'ostentata scortesia e indifferenza, a qualcosa di molto peggio. 

A questo secondo ambito appartiene di sicuro il recente episodio dei dipendenti di una grande catena di distribuzione che, scoperte delle persone a rovistare sul retro del magazzino, prima le hanno chiuse dentro il contenitore, poi filmate come bestie arrabbiate dietro le sbarre, e infine sadicamente postato quel video sul social network. Scatenando il putiferio.

Nel modo assai schierato e ultrasemplificato tipico del dispiegamento mediatico attuale, si delineano due fronti. Il primo fronte lo chiameremo dei razzisti, dicono qui si tratta di banale autodifesa dai ladri, i lavoratori hanno fatto benissimo sia a richiudere quelle persone che a far vedere a tutti a cosa ci si deve ridurre per cercare di «convivere» dentro quegli spazi di conflitto che sono i nostri territori di margine, luoghi di insicurezza che andrebbero messi a ferro e fuoco per l'incolumità dei cittadini. Il secondo fronte, degli antirazzisti, parla di gesto odioso intollerabile, e chiede non solo punizione esemplare per i colpevoli da parte della magistratura, ma anche pugno duro dell'azienda, con licenziamento in tronco senza se e senza ma, oltre a una pubblica e grave stigmatizzazione. 

Ed è proprio qui, su questo punto, che val la pena soffermarsi un istante, perché dall'altra parte, sul fronte razzista, si invoca invece impunità (offrendo sostegno legale) sia sul fronte del tribunale penale, sia su quello dei rapporti di lavoro. Forse la chiave interpretativa di tutto l'equivoco si può trovare qui: nel ruolo ed eventuale colpevolezza dell'impresa.

La quale impresa per adesso si è «salvata» con un comunicato dell'ufficio stampa, in cui stigmatizza (per forza) l'evidente reato di sequestro di persona dei suoi dipendenti, restando un po' più sul vago riguardo alle sanzioni dal punto di vista del rapporto di lavoro. Ma nulla ci dice, e ne ha ben d'onde, sull'altro versante, ovvero della sua latitanza sul fronte della prevenzione, della gestione dello spazio pubblico/privato, della sicurezza e salubrità del luogo di lavoro. Perché è qui che, in realtà, casca l'asino

Se ci pensiamo un istante solo, ripercorrendo le nostre esperienze quotidiane di cittadini e consumatori negli spazi commerciali, non può non saltare all'occhio quella differente «politica aziendale» di approccio alla gestione dello spazio pubblico (e di quello di transizione) dei vari marchi o negozi, molto visibile per esempio nelle condizioni fisiche di parcheggi, ingressi, tratti di marciapiede antistanti, aree carico-scarico e smaltimento rifiuti. Sono, inutile ricordarlo, i luoghi del passaggio, dell'incrocio fra il lavoro, il consumo, e quelle parti di società che in genere vediamo molto più da lontano. Ma che i lavoratori del commercio invece incrociano di continuo, magari anche intrattenendo piccoli rapporti personali.

Dalla criminale ingenuità con cui quei lavoratori sequestratori di persona a loro insaputa hanno agito, emerge soprattutto la totale delega e improvvisazione con cui, a quanto pare, l'azienda lascia gestire gli spazi di transizione tra la città e l'ambiente propriamente commerciale, la camera di decompressione fra privato e pubblico, anche nelle forme di relazione.

Quei compiti che in altri casi (ci sono interi scaffali di letteratura sociologica e psicologica sul ruolo di portinai, negozianti, guardie giurate o vigili urbani, nel presidio «spontaneo» di luoghi chiave della convivenza) sono oggetto di formazione, controllo, pianificazione, qui, complice probabilmente anche il tipo di rapporto di lavoro, magari precario, magari di breve periodo, sono evidentemente ignorati. 

Si opera in una zona a rischio senza alcuna consapevolezza del rischio, e senza alcuno strumento per contrastarlo in sicurezza. Si reagisce da bambini idioti e un po' sadici che hanno trovato il topolino nell'angolo della cucina, decidendo di torturarlo per divertirsi, solo perché la mamma non ha mai pensato che potesse succedere, e comunque non dà grande importanza alla cosa. Non deve andare così, non è abbandonando gli spazi e le persone a sé stesse che si svolge il proprio ruolo sociale. Di questo, doveva e ancora deve rispondere, chi dalla città e dalle sue forme di convivenza trae profitto. Per il resto, ci sono le leggi, i tribunali, e anche le legittime polemiche sul razzismo.

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