rotate-mobile
Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Chi ti abbraccia nell'orto poi ti tradirà

In principio era il verbo, però poi bisogna anche saperlo coniugare correttamente, o almeno provarci. Perché le parole come diceva quel sopravvalutato regista sono importanti, e il loro significato autentico andrebbe guardato con un briciolo di rispetto in più, invece di rigirarle come frittate a comodo proprio. Ad esempio i termini latini, un tempo territorio di caccia privilegiato per professori tromboni o parroci di campagna, da un po' sono ricomparsi nella cronaca e persino sul social network, e l'altro giorno nell'occhiello di un giornale locale faceva capolino un suggestivo «Urbs in Horto», evocando nel lettore aromi crepuscolari nostalgici. Si trattava, andandosi a leggere poi l'articolo, di una intervista a un prestigioso urbanista, che aveva scelto quello slogan per delineare una sua grande idea di sviluppo locale per la cosiddetta «città diffusa» veneta, quella che altri chiamano villettopoli o, all'americana, sprawl. «Urbs in Horto», come spiegava giustamente sin dall'inizio l'urbanista intervistato, era il motto scelto nel XIX secolo dalla città di Chicago, quando si costituiva in municipio avviandosi a diventare la grande metropoli del futuro, senza dimenticare quel suo stare immersa nella grande regione dei laghi dei boschi e delle colline. E anche per la campagna veneta di oggi, tra residui di spazio agricolo, capannoni, svincoli lottizzazioni, quello slogan pareva così bene augurante e ricco di suggestioni.

Ma le parole sono importanti, e se in principio era il verbo di solito andare a vedere cos'è successo dopo quel principio aiuta, e pure parecchio. Innanzitutto proprio nel posto dove era stato adottato, quel motto, e che i maggiorenti locali, quelli che oggi chiameremmo forse «agenti di sviluppo», chiamarono subito Garden City, traduzione letterale dal latino, e terminologia fortunatissima sin da subito. Una fortuna più che altro mediatica e teorica, se si legge per esempio il romanzo realista «La Giungla» del giornalista di inchiesta Upton Sinclair, in cui una famiglia di immigrati dall'Europa centrale, operai nella grande industria alimentare di Chicago, se la vive sulla pelle, quella sedicente Città Giardino. E nella non lontanissima New York gli echi dell'accattivante termine raggiungono le sensibili orecchie del milionario re dei grandi magazzini, Alexander Stewart, che ricicla pro domo sua la Urbs in Horto comprandosi dei campi di patate a Long Island e costruendoci sopra una specie di Manhattan Due Immersa Nel Verde, paradiso suburbano per mogli di uomini d'affari, a un'ora di treno dal centro. Siamo ancora solo negli anni '80 del XIX secolo, e di nuovo nella Chicago che aspirerebbe ad essere città giardino secondo il suo motto, un giovane immigrato britannico cerca fortuna fianco a fianco con gli operai dei mattatoi descritti da Sinclair. Si chiama Ebenezer Howard, e anche per lui la garden city sul lago Michigan sarà piuttosto avara di frutti, salvo quel modo di dire che invece, tornato a Londra, userò per un suo fortunatissimo progetto, tanto fortunato da farlo nominare poi baronetto.

La città giardino di Howard è un sogno di riforma sociale, ma anche un'idea di equilibrio ambientale ed economico: sono immediatamente i suoi stessi cantori ad azzerarla e metterla di fatto da parte. Come si suol dire, si promuove qualcuno per liquidarlo e metterlo a tacere: la città giardino diventerà presto un modo per definire tetti spioventi, abbaini, vie serpeggianti e cespugli fioriti, altro che equilibrio ambientale e giustizia sociale. E tornando di nuovo là dove tutto era cominciato, all'ombra del motto Urbs in Horto, ci pensa uno dei fondatori dell'urbanistica moderna, l'architetto Daniel Burnham (quello che diceva i progetti li realizzano gli altri, il mio compito è solo quello di far pulsare il sangue nelle vene di chi investirà) a chiarire i termini della faccenda, col suo gigantesco Piano Regolatore del 1909. Fatto di straordinari quadri impressionisti, architetture quasi dichiaratamente irrealizzabili ma tali da «rimescolare il sangue nelle vene», e soprattutto di tanti progetti in tono minore ma assai tecnici, tra cui la rete delle innovative «parkway» che legano il tutto. All'alba del '900, con l'automobilismo di massa incipiente che lo stesso Burnham saluterà trionfale nel suo tour europeo alla Town Planning Conference di Londra, la parkway è la vera incarnazione fisica di cosa significa, in fondo, Urbs in Horto, e farlo con una travolgente retorica. E torniamo all'oggi, e alle nostre ex campagne venere con la loro ideale «città diffusa» che all'antico motto dovrebbe chissà perché ispirarsi.

La città nel giardino, in fondo che cos'è, se non un gran sforzo di immaginazione per riuscire a spaparanzarsi comodamente dentro un'aiuola, facendo finta di non schiacciarla più di tanto? La medesima retorica per «rimescolare il sangue nelle vene» degli investitori, alla Daniel Burnham, nella confinante Lombardia ha prodotto non molto tempo fa lo slogan della cosiddetta Città Infinita. Quella che il sociologo Guido Martinotti liquidava con «è così infinita che inizia a Cassano Magnago e finisce a Dalmine». Ovvero segue passo passo il tracciato dell'Autostrada Pedemontana, visto che è nata esattamente per giustificarne l'esistenza, versione ideologica e postmoderna dell'antica parkway, che ha ridotto la parte a parco a una strisciolina di alberi che mimetizzano l'asfalto. Un po' più a est, nella città diffusa veneta, il campanilismo impone di cambiare slogan, di risalire l'ideologia della città giardino fino alle origini del motto Urbs in Horto, ma ecco che di nuovo spunta, quella parkway evoluta in forma autostradale, nerbo della suburbanizzazione che non si vuole chiamare col suo nome proprio: sprawl. E che sarà mai!

Sprawl, altri articoli di Fabrizio Bottini sul sito La Città Conquistatrice
 

Si parla di

Chi ti abbraccia nell'orto poi ti tradirà

Today è in caricamento