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Venerdì, 19 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Un fucile puntato contro la città

A distanza di tanti anni ricordo ancora molto distintamente di aver letto, in un articolo sdegnato di un cultore dell'arte locale del primissimo '900, paragonare un nuovo classico viale della Stazione, del tipo di quelli che si sono aperti e rinnovati per decenni in quasi tutte le città e cittadine italiane dove passava la ferrovia, a «una freccia puntata al cuore». Quell'indignato conservazionista pensava naturalmente a una ferita estetica, al taglio netto di quelle linee diritte, parallele ai condotti fognari, alle nuove facciate degli edifici di rappresentanza, ai fili della luce ed eventuali rotaie del tram, che avrebbero prima distrutto solo poche baracche e fossi di prima periferia, ma poi spinto idealmente per trasformare anche il nucleo urbano più interno e ricco di identità, a cavallo delle antiche mura e oltre, nei dintorni dell'immancabile cattedrale o chiesa storica, o del palazzo civico, delle piazze del mercato tradizionale e via dicendo. Purtroppo, poi, alla lettura piuttosto chiara di un sintomo tutto sommato superficiale come alcune modifiche estetiche, non si è accompagnata altrettanta consapevolezza (anche scientifica, non avrebbe certo guastato) delle trasformazioni sociali, comportamentali, insomma dell'intero tessuto che chiamiamo urbanità, in cui si mescolano fisico e virtuale secondo forme cangianti ma abbastanza individuabili.

Così, nei decenni successivi a quei primissimi disperati allarmi, lo schiacciasassi della «modernizzazione automobilistica», che confondeva meccanicamente quanto in malafede l'accessibilità con la realizzazione di alcune, specifiche opere di ingegneria, ha anche confuso certa modellistica di «sviluppo stellare per quartieri» prodotta dalla migliore urbanistica dell'epoca, trasformando quelle unità residenziali integrate, di iniziativa pubblica o privata che fossero, in una specie di giustificazione per qualcos'altro, in un imbuto che rovescia tutto dentro agli «assi di penetrazione veloce» progettati secondo criteri del tutto autostradali. Consideriamo del tutto normale, così, oggi, prima girare attorno a una città sull'arco delle circonvallazioni esterne o tangenziali propriamente di tipo autostradale, e poi senza soluzione di continuità (e alle medesime velocità intuitive) puntare verso il centro su questi assi dedicati a diverse corsie, quasi sempre con striscia di separazione centrale, a volte ribassati in trincea per parte del percorso, o sollevati su terrapieno a dividere ulteriormente i quartieri. Canne di fucile, né più né meno, che sparano velocissimi i veicoli da un punto all'altro, pretendendo una efficienza autostradale che fa a cazzotti con l'ambiente urbano, per il motivo più ovvio dell'universo, salvo a certi progettisti e decisori: la segregazione modale è l'esatto opposto del metabolismo urbano, fatto di spazio tendenzialmente condiviso.

Avviene così che in un modo o nell'altro anche questi mostri alieni buttati addosso a qualsivoglia idea di urbanistica, si debbano adattare (malissimo) al contesto, nell'unico modo che conoscono, ovvero costruendo degli interfaccia: svincoli-chicane rallentanti a livello e non, rotatorie che dovrebbe trasformare e attenuare l'attrito da radente a volvente, o i classici vetusti semafori, versione elettrica vintage di quel «senso civico» auspicato qui e là come panacea. Ed è a uno di questi insulsi e dementi semafori, che ieri mattina a Milano si è verificato l'ennesimo insulso e demente incidente mortale: un furgone che in piena forte velocità, senza rallentare, ha scaraventato per aria e stritolato l'auto regolarmente ferma ad aspettare il verde. La cronaca, al solito, ci racconta per l'ennesima volta la cosiddetta «dinamica» i due veicoli, i controlli sullo stato di ebbrezza, le velocità, ma altrettanto al solito sorvola sulla «statica» del fattaccio, salvo forzosamente riferire il toponimo: via Virgilio Ferrari, uno dei paradigmi modello di queste canne di fucile puntate al cuore della città, salvo un paio di semafori, e in particolare QUEL semaforo all'angolo della via Campazzino. Ovvero una luce rossa verde gialla a pretendere di condizionare comportamenti «civici», ridurre la velocità, invitare a adeguarsi al contesto, dove un'autostrada di fatto taglia una poderale (sì, a Milano esistono strade poderali) che a sinistra si perde dopo venti metri in un vicolo cieco su un ponticello selciato, e a destra poco più in là diventa sterrata fino alla Cascina Campazzino che le dà il nome, aprendosi nel Parco Agricolo Sud. In tutte le nostre città, ne abbiamo a decine, di incroci mal regolati del genere. Sergio Leone faceva dire ai suoi attori western che «quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l'uomo con la pistola è morto». Ma forse gli ingegneri stradali e gli assessori che ce li sguinzagliano contro preferivano e ancora preferiscono altri tipi di pellicola, più consolatoria.

Su La Città Conquistatrice il tag Sicurezza stradale prova ad andare oltre il mitico «senso civico», e anche oltre i militari appostati col mitra su qualche angolo a minacciare i trasgressori

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