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Mercoledì, 24 Aprile 2024
'Ndrangheta / Reggio Calabria

Boom! "Chi ha fatto boom?": cronaca di una notte di paura

A Reggio Calabria le bombe, se esplodono, lo fanno in piena notte. O almeno così è sempre stato. Il boato ti confonde. Cosa è stato? Poi partono le sirene, e ogni dubbio si cancella. I clan hanno deciso di colpire. Stanotte. Fine della tregua

Reggio Calabria, un lunedì come tanti che si srotola verso il giorno successivo. La città metabolizza ancora le nottate alcoliche del week end e i sonnolenti pranzi della domenica con la famiglia. La settimana è appena iniziata, ci sono tanti troppi giorni fino a venerdì. Mancano una manciata di minuti alle ventitré. Boom. I balconi si aprono. I telefoni iniziano a squillare. Sui social, parte l’allarme. "Una bomba? Ma che dici, dove? Non so, mi sembra in centro. Non è possibile, è troppo presto". 

Anche la violenza ha le sue regole e chi la subisce impara a conoscerle. Un morto per caso, un passante, un nessuno, ucciso o ferito da un attentato dinamitardo è un lusso in termini di rabbia popolare, generale indignazione e attenzione investigativa che nessun clan si può permettere. E allora le bombe – si è imparato a Reggio – se esplodono lo fanno in piena notte. O almeno così è sempre stato. Poi partono le sirene, a cancellare ogni dubbio. 

La città è piccola, una striscia di case che dallo Stretto di Messina si arrampica sulle colline. Pochi minuti bastano per capire da dove arriva il rumore dell’esplosione. È il centro, il cuore della città. Alle spalle di quella piazza custodita dai palazzi delle Istituzioni. La Provincia, la Prefettura, il Comune, sfregiato dallo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Ed è a pochi passi da quella piazza che i clan hanno deciso di colpire.
 
Vetrine distrutte, un portone semi-divelto, automobili danneggiate. Il cordone bianco e rosso con cui carabinieri, polizia e vigili del fuoco hanno delimitato la zona non impedisce di vedere la devastazione che l’esplosione ha provocato. Nessuno in un primo momento si sbilancia, ma le cause sono evidenti. Un’oscura manina ha voluto radere al suolo la salumeria che da qualche mese aveva aperto dietro il palazzo storico della Provincia, a pochi passi dal corso principale della città. Un negozio di lusso, per palati fini e tasche non magre. Un negozio che per qualcuno non ci doveva essere più. E non si tratta di un caso isolato. 

Dopo anni di relativa tregua, si tratta della terza chiara intimidazione che arriva in meno di venti giorni. Le prime due hanno interessato un noto bar del centro città, negli anni d’oro cuore della movida cittadina e punto di riferimento per almeno tre generazioni di reggini, ma da settembre chiuso e al centro di una delicata trattativa per il passaggio di proprietà. A transazione avvenuta sono arrivate le bombe. La prima di notte, di fronte a una saracinesca poi accartocciata dall’esplosione. La seconda, semplicemente depositata di fronte al bar chiuso e annunciata solo quattro giorni fa, nelle prime ore della mattinata, da una misteriosa telefonata anonima. Tre in venti giorni. Troppe per investigatori ed inquirenti, che sono entrati in fibrillazione. Troppe per la città, che inizia a vivere con inquietudine le sue notti. 

Sono saltati gli equilibri, i clan sono in fibrillazione, qualcuno sta sgomitando e cerca un posto al sole che non ha. Voci e indiscrezioni si rincorrono. Si guarda ai processi e agli anni di carcere che hanno falciato i ranghi dei clan storici, si contano i buchi nelle linee di comando conosciute. Qualcuno inizia a far correre la parola magica “emergenza” che a Reggio Calabria è divenuta sinonimo di cronica straordinarietà, che negli anni ha garantito per le più diverse ragioni -  dall’emergenza acqua a quella sicurezza, dall’emergenza criminalità a quella spazzatura – procedure speciali e finanziamenti a pioggia di cui spesso solo autoproclamate classi dirigenti e clan hanno beneficiato. 

Ma c’è un’altra voce, più sommessa, più pacata. Che ricorda quelle che nel reggino chiamano “carrette”, andando più a sud-est, nella Locride “catrichi”. Non sono curiosi mezzi di trasporto, ma raffinatissimi inganni. Ombre cinesi con cui le cosche hanno spesso disegnato nel tempo realtà che non esistono, mescolando gli elementi del reale, della cronaca in modo che fossero letti come loro volevano. Messinscena calibrate al millimetro per cancellare faide, nascondere capi, derubricare a crimini comuni, omicidi che forse – dicono alcune ipotesi investigative – si iscrivono nella storia grande e ancora tutta da scrivere della trattativa Stato mafia. 

Anche gli attentati degli ultimi giorni, dicono alcune voci, potrebbero essere “carrette”. Rappresentazioni necessarie a mostrare che il volto più selvaggio, brutale e criminale della ndrangheta. Un’organizzazione sì pericolosa, sì sanguinaria, ma dai modi spicci, diretti, tendenzialmente rozza, se non primitiva, capace di usare solo il linguaggio della violenza fisica, dell’intimidazione manifesta, delle armi spianate. Certo, a libro paga ha qualche politico e più di un imprenditore, ramazza qualche appalto e importa droga come se non meglio di altri che gestiscono carichi di banane. Ma in fondo, è un corpo estraneo al sistema.

Peccato però, che quello che oggi le inchieste e processi stanno raccontando sia quanto di più lontano da questo. Lo hanno raccontato le indagini, lo hanno spiegato i pentiti. 

Nella ndrangheta esistono due strutture, una visibile e l’altra invisibile

* Giornalista del Corriere della Calabria e autrice di Chi comanda Milano

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