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Venerdì, 29 Marzo 2024
dietro lo show

Gli italiani non guardano più la tv? Macché: come funziona davvero il sistema televisivo (piattaforme comprese)

Massimo Scaglioni, professore di Scienze Linguistiche dell’Università Cattolica di Milano e direttore del Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi, analizza gli ultimi dati che registrano un calo importante degli italiani davanti alla tv. E' fuga dal prime time? Niente affatto. Anzi

Che succede alla tv? Davvero gli italiani non la guardano più? E fino a che punto l’intrattenimento tradizionale sempre accettato di buon grado dai telespettatori ha perso il suo appeal? Le domande sorgono davanti alle ultime elaborazioni dei dati Auditel dello Studio Frasi, società specializzata nelle analisi degli scenari sul sistema dei media, secondo cui, a ottobre 2021, le persone che hanno guardato la tv sono diminuite rispetto a un anno fa. Nel cosiddetto prime time, ovvero nella fascia 20.30-22.30 in cui tradizionalmente si è sempre concentrata la maggioranza dei telespettatori, gli ascolti sono diminuiti di ben 2,5 milioni, cifra che rappresenta meno del 40% della popolazione totale. Sono numeri importanti, specchio di una situazione che non si registrava da 18 anni e che ha fatto parlare di “una fuga” degli italiani dal prime time, appunto.

In effetti, letti nella fredda logica che misura senza contestualizzare, i dati sembrano davvero cristallizzare la profonda crisi dell’intero sistema. L’interpretazione, però, cambia, e di molto, se le cifre si inquadrano nell’attualità del periodo segnato da una pandemia che ha drasticamente mutato il rapporto tra utente e mezzi di informazione. A dare una spiegazione più ampia alla questione è Massimo Scaglioni, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Linguistiche e Letterature Straniere dell’Università Cattolica di Milano e direttore del CeRTA (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) fondato da Aldo Grasso.

“I dati vanno spiegati. Si parla di fuga dal prime time ma è un’espressione eccessiva” ci spiega: “Sicuramente a ottobre 2021, periodo di riferimento dell’analisi dello Studio Frasi, c’è una flessione importante, ma bisogna tenere conto che la rilevazione è stata comparata a ottobre del 2020, periodo eccezionale in cui la platea del prime time era arrivata a 25,5 milioni di spettatori. Allora la crescita della tv generalista è stata molto forte, perché effetto della pandemia: iniziavano ad esserci di nuovo delle restrizioni, le persone non uscivano di casa, le regioni si coloravano diversamente, iniziava la cosiddetta seconda ondata. Per questo il dato va contestualizzato nell’eccezionalità del momento iniziato con la pandemia a marzo 2020”.

Per capire se e quanto sia effettivamente cambiato l’approccio che gli italiani hanno avuto e hanno con la tv, dunque, i numeri relativi all’ottobre 2021 andrebbero paragonati agli anni precedenti al 2020. “Chi analizza i dati sa che il periodo pandemico ha decretato una forte crescita del consumo della tv legato al ruolo che essa ha svolto durante il lockdown come autorevole punto di riferimento per l’informazione e l’intrattenimento”, prosegue Scaglioni: “A ottobre 2019 e 2018 avevamo una platea del prime time di 24,5 milioni: questo significa che quest’anno c’è sì una flessione, ma non è così ampia come quella che emerge dal paragone con l’anno scorso. Quindi la flessione c’è, esiste, ma non è una fuga dal prime time”.

Come la pandemia ha cambiato il rapporto con la tv

Nell’ultimo anno e mezzo contraddistinto dall’emergenza sanitaria il rapporto con la tv è cambiato molto, segnato dall’urgenza di essere informati e di informare. “I dati quantitativi della fruizione lo dimostrano. Alcuni elementi sono cambiati impercettibilmente, per esempio è andato aumentando il numero di smart tv, ma anche l’uso della tv connessa” osserva Scaglioni: “Durante la pandemia ci siamo tutti un po’ più attrezzati sul piano tecnologico, utilizzando mezzi nuovi. Oggi in Italia ci sono più di 10 milioni di smart tv e la tv connessa apre uno scenario diverso rispetto al normale consumo di televisione, perché mette in una posizione ‘orizzontale’ il palinsesto tradizionale (quello lineare, per intenderci, la scansione dei canali 1, 2, 3...) e dall’altro il contenuto non lineare sempre più disponibile in modalità on demand”.

Ecco, allora, che il richiamo al grande avvento delle piattaforme streaming si fa inevitabile: “Per la prima volta si trovano nello stesso ‘ambiente’, elemento che facilita allo spettatore il passaggio alle piattaforme, se non trova nulla di interessante nella tv tradizionale. Tutto con lo stesso telecomando. In passato erano su due mondi diversi, oggi sempre di più una parte crescente della popolazione italiana accede ad un ambiente in cui la scansione del palinsesto e l’offerta on demand si trovano nello stesso contenitore”. 

Da considerare c’è anche un altro elemento di grande attualità, ovvero l’ultimo switch off che dal 20 ottobre ha dato il via al progressivo cambiamento dello standard di trasmissione della tv digitale e che si concluderà nel 2023. “Nelle case degli italiani arriveranno molte più smart tv e si prevede un’intensificazione del fenomeno” è l’appunto di Scaglioni: “Inoltre, da quest’anno una parte importante dei contenuti di calcio sono passate sulle piattaforme (Dazn ha acquisito i diritti della Serie A, Amazone Prime quelli della Champions League), elemento che ha contribuito ad abituare ancora di più gli italiani al maggiore utilizzo delle piattaforme di streaming”.

La tv a seconda delle esigenze: il caso “Uomini e Donne” e “Report”

Considerate le nuove tecnologie, la tv tradizionale è destinata a soccombere? “Niente affatto: i consumi ci dicono il contrario, è ancora molto centrale nonostante questa flessione. Solo si creerà una sempre maggiore complementarità” afferma l’esperto che ricorda come l’offerta on demand non sia circoscritta ai vari Netflix e Amazon Prime, ma si estenda anche alle stesse reti tv, come i servizi Rai Play e quelli Mediaset. “Su certi programmi i dati del consumo non lineare di televisione tradizionale sono molto forti” dice Scaglioni: “Questo funziona soprattutto quando ho perso un programma nel palinsesto e posso recuperarlo e, da questo punto di vista, i dati di consumo non lineare sono molto alti. Un programma day time come Uomini e Donne, per esempio, ha dei dati di consumo non lineare molto elevati, perché le persone che non sono a casa nel pomeriggio poi lo recuperano con abitudine. Questo tipo di consumo, poi, è molto legato a contenuti che scatenano discussione, come una puntata di Report, per citarne uno. Lineare e non lineare non si escludono, insomma. E questa situazione comporta che gli editori televisivi siano in concorrenza con nuovi editori, quelli delle piattaforme”.

L’Auditel è ancora attendibile?

La Società Auditel rileva i suoi dati mediante i cosiddetti meter, apparecchi elettronici installati in un campione di famiglie scelte, in teoria, perché siano rappresentative della popolazione. Alla luce di una società molto cambiata nel corso degli anni, tale sistema di raccolta è ancora attendibile come un tempo? “Sì, lo è eccome” chiarisce Scaglioni: “Auditel dal 2019 ha intrapreso un percorso di innovazione definito di total audience che monitora tutto il sistema. La finalità della rilevazione è quella di misurare non solo il consumo lineare, ma anche quello relativo alle tv connesse, alle smart tv, ai computer, agli smartphone”.

Così il sistema si è evoluto nei tempi recentissimi: “L’Auditel tradizionale funziona attraverso un campione, il super panel, comprensivo di 15mila famiglie italiane che vengono monitorate attraverso i meter. Il nuovo sistema in azione dal 2019, invece, non è basato su un campione, ma si definisce censuario: tutti i contenuti televisivi fruiti sui device digitali hanno una sorta di etichetta che permette di registrare i consumi quando vengono erogati, quindi anche nei giorni successivi. Per questo oggi l’industria non guarda più solo i dati Auditel del mattino, ma anche il consumo aggiuntivo dei giorni seguenti. Esempio: è vero che la puntata del Collegio ha raccolto un milione e mezzo di telespettatori lineari, ma poi nei giorni dopo ne ha raccolti altri 250mila”.

Il successo dei programmi, dunque, può essere rilevato dal cosiddetto share registrato dai dati del giorno dopo, ma non solo: “Lo è già oggi, ma sempre di più nei prossimi anni la valutazione del successo o dell’insuccesso di un programma non potrà essere rilevato esclusivamente attraverso i dati delle ore 10 del mattino del giorno dopo, ma dovrà tenere in conto anche la possibilità che quel programma funzioni mediante la messa in onda non lineare”. 

Così le piattaforme di streaming "nascondono" i loro dati 

Tuttavia, a questo sistema di rilevazione che comprende ogni tipo di fruizione c’è un limite non da poco, posto da coloro che non hanno accettato di essere monitorati. “Gli editori che hanno accettato di essere misurati entrando così nel perimetro della cosiddetta total audiance sono quelli televisivi, quindi Rai, Mediaset, Discovery, Sky. Le piattaforme, invece, non rientrano in questa misurazione e i dati che forniscono sono autocertificati e nessuno può controllarli” argomenta il professore: “Mentre le rilevazioni Auditel hanno una metrica trasparente, quello che dicono dalle piattaforme non è controllabile. Ultimo caso, quello di Netflix con Squid Game che dicono sia stato visto da 140 milioni di spettatori nel mondo: che significa 140 milioni? Significa che hanno visto una puntata o tutta la serie? Non sono numeri certi”. Perché le piattaforme non accettano di farsi monitorare? “Per una ragione industriale: le piattaforme non raccolgono pubblicità e quindi sono meno sensibili alla necessità di condividere i dati di consumo. Nel loro modello di business non è importante il consumo, ma le sottoscrizioni. Ma ovviamente le due cose sono connesse, ovvio che io mi abbono se c’è un appeal nel consumo”.

Dazn, invece, che pure ha detto di non voler entrare nel sistema Auditel limitandosi a concedere i propri dati attraverso un sistema proprio, merita un argomento a parte: “Nel suo caso la situazione è diversa, avendo acquisito i diritti del calcio che, invece, raccoglie pubblicità” afferma Scaglioni: “Infatti, l’Associazione investitori pubblicitari (UTA, Utenti pubblicitari associati) ha molto criticato questo sistema chiedendo di uniformarsi a criteri di trasparenza e condivisione”.

Il futuro della tv tradizionale e il ruolo degli editori che non rischiano

Lo scenario futuro, comunque, non proietta affatto la fine della tv generalista: “Questo periodo di pandemia ha dimostrato la sua funzione di collante sociale e una grandissima vitalità” osserva Scaglioni che si sofferma sul ruolo determinante degli editori chiamati alla giusta interpretazione di un cambiamento sociale. “La difficoltà che potrebbe essere riscontrata oggi è quella degli editori televisivi di interpretare bene il cambiamento sociale e di farlo in modo innovativo. Sono molto abituati alla conservazione di programmi che continuano a funzionare dopo anni e sono visti come una garanzia” afferma: “Quando si innova, si rischia di andare male, com’è successo quest’anno a tanti programmi di intrattenimento (Vorrei essere un mago, Star in the Star). Ma, secondo me, spesso sono programmi fatti male, sono idee sbagliate, di palinsesto e di prodotto. Mi pare ci sia più una responsabilità degli editori che dovrebbero innovare in modo intelligente e anche gestire meglio un ambiente che non è più quello tradizionale”.

E anche la contaminazione tra mondo social e tv ha un ruolo importante che non è detto funzioni, anzi. “Adesso c’è un po’ questa idea del prendere l’influencer super popolare e portarlo in tv, ma non è detto che la sua popolarità sia garanzia di successo televisivo” conclude Scaglioni: “La tv italiana è per tradizione più una tv di volti che di meccanismi e questo è un grosso limite: innova poco e pensa di salvarsi sempre attraverso la popolarità dei volti. Ovvio che il personaggio ha un peso, ma noi siamo troppo abituati a pensare ‘il nuovo programma di’ e non alla sua struttura. Perché poi se un personaggio di valore viene messo in un programma che non funziona, quel programma non funziona, punto. All’estero funziona diversamente e non è un caso che la ricchezza dei format stranieri sia tanta rispetto alla nostra”. 

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