THIS IS NOT PARADISE: La strana accoglienza di Beirut
Questo è il diario di un gruppo di film-makers al lavoro per un documentario: "This is not paradise". E' il racconto delle tragiche condizioni in cui vivono le migranti domestiche provenienti soprattutto da Filippine, Nepal, Sri Lanka, Etiopia ed Eritrea. Lisa Tormena, Gaia Vianello, Marco Bacchi e Matteo Lolletti racconteranno, passo per passo, la nascita del loro film, le problematiche che troveranno sulla loro strada, gli incontri che faranno
Quando arrivi a Beirut ti accoglie una sensazione strana, qualcosa che forse ti porti dietro da prima, per quello che (non) sai, per ciò che hai letto sui giornali, per le cose che hai immaginato mentre da Cipro - era quasi notte - sorvolavi quella lingua scura di Mediterraneo che divide l'ultima Europa dal Libano.
Forse c'entra con il traffico folle, una sorta di arena in cui ci sono poche regole basilari, come quella di suonare agli incroci lungo strade in cui i semafori esistono da meno d'una decina d'anni, arterie enormi o minuscole in cui, a prescindere dalla grandezza, il senso di marcia per le auto è poco più di un'opinione e i pedoni sono al massimo un ingombro (o turisti a cui suonare, se si è uno dei taxi che, più o meno regolari, sfrecciano a decine e accostano in cerca di un cenno di assenso).
Oppure sono i palazzi enormi e orribili, che sorgono disordinatamente in spazi ridotti, quasi accatastandosi, opprimendo piccole case e meravigliose in stile liberty, disabitate, senza padroni e in rovina, i cui attuali proprietari, figli della fuga dei propri genitori dalla guerra civile, neppure sanno di possedere. Palazzi in cui si riversa quel vicino mondo arabo - ricco e musulmano - che cerca un occidente prossimo, fatto di costumi più liberi e libertini: palazzi ingombranti e inutili che stanno uccidendo una città che doveva essere, e in parte ancora lo è, bellissima.
Forse perché Beirut è un cantiere che a tratti copre mare e sole, con l'elettricità che penzola tra una casa e l'altra e sparisce per tre ore al giorno, arrangiata in grumi di cavi che ti ritrovi all'altezza del viso, mentre ogni tanto rivoli d'acqua si riversano in strade i cui i numeri civici non esistono e a volte si rintracciano solo per la presenza di un posto celebre, quale una pizzeria o una chiesa.
O sono i giovani di Beirut, che ballano fino a notte fonda nei quartieri cristiani, affollano i locali e sembrano cercare la vita in ogni piega del quotidiano, oppure le distanze che non sono così spesse ma si accentuano, cercando la differenza reciproca e forse la diffidenza. Beirut è una città di contraddizioni, di carri armati agli angoli delle strade e di raffinati ristoranti giapponesi dal menù solo in inglese frequentati da russi e ricchi libanesi, di burqa e minigonne, di alcool e ramadan, di dollari americani e lire libanesi, valute entrambe usate e accettate come moneta ufficiale del paese.
È come se a Beirut non si investisse sul domani, o lo si facesse sapendo che potrebbe tranquillamente non esserci, in un senso di continua precarietà. Ecco cos'è quella sensazione strana: sono precarie le vecchie case, le mostruose costruzioni sulla spiaggia di una zona sismica, i collegamenti elettrici e telefonici, le notti lungo Rue Gouraud, gli arak bevuti come se fossero gli ultimi e le tante preghiere che si alzano, diverse, dai tanti quartieri - così lontani e così vicini.
Ma questa precarietà non è rimozione, né lassismo, forse non è neppure fatalismo, ti viene da pensare. È qualcosa di ancora diverso, che ancora non ti è dato di capire e che non sei riuscito ad afferrare pienamente in questi primi tre giorni libanesi.
Eppure è questo il contesto in cui racconteremo le storie che siamo venuti a documentare, storie di migranti domestiche che in Libano cercano speranza e spesso trovano abusi.
Storie sì di schiavitù e violenze, ma anche e specialmente la storia di una società, di una comunità che - per la prima volta dopo tanti anni - si organizza per un obiettivo comune, quello di porre fine a questa situazione diffusa, reagendo come se un domani, invece e forse non solo per una volta, finalmente ci fosse.