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Venerdì, 29 Marzo 2024
Il caso

Milano, un miliardo di euro rubato al Fisco e "regalato" a Bin Laden

Secondo la procura di Milano, grazie a finte vendite di "carbon credit" un'azienda italiana ha frodato più di un miliardo di euro al Fisco. Quei soldi sono finiti ai fondamentalisti islamici

MILANO - Ci sono voluti anni per dare una ragione al terrore di una commercialista milanese. E per spiegare quelle carte, intestate a una società milanese, ritrovate nel 2010 in un covo dei talebani al confine tra Afghanistan e Pakistan. Ma alla fine una spiegazione è stata trovata, ed è stata fatta luce su un incredibile giro di affari tra aziende italiane e fondamentalisti islamici. 

Secondo un'indagine della Procura di Milano oltre un miliardo di euro di Iva sarebbe stato frodato al fisco italiano per andare a finanziare i gruppi terroristici del Medio Oriente. Secondo quanto ricostruito dal "Corriere della Sera", si sarebbe trattato di una colossale truffa fiscale sui certificati ambientali, che sarebbe provata da documenti trovati nel 2010 in un rifugio afghano.

I servizi segreti delle forze Nato non trovarono in quel nascondiglio, come si aspettavano, Osama Bin Laden. Ma scoprirono un bel po' di informazioni utili a smascherare un'organizzazione che sottraeva fondi al fisco proprio per finanziare i terroristi islamici. 

A dare il là alle ricerche era stata la segnalazione di una commercialista spaventata. Le sue ricostruzioni avevano permesso l'incriminazione di trentotto indagati e il sequestro di ottanta milioni di euro, con la Procura milanese che era andata a colpire un'associazione criminale anglo-pakistana e una franco-israeliana che, tra il 2009 e il 2012, sarebbero riuscite a sottrarre all'Italia più di un miliardo di euro di Iva. 

I documenti relativi alla maxi-frode erano in un rifugio non lontano da quello dove, il 2 maggio 2011, gli americani uccisero il Re del Terrore, e portavano a Imran Yakub Ahmed, pakistano, quarant'anni, passaporto inglese, amministratore della milanese "Sf Energy Trading spa". Era proprio questa la società finita nel mirino dei procuratori dopo la denuncia della commercialista, che era rimasta scioccata dalla facilità con cui la "Sf Energy" guadagnava lavorando per società intestate a prestanome cinesi e italiani che vendevano e compravano migliaia di carbon credit, certificati ambientali che possono essere negoziati dalle aziende che producono meno gas-serra rispetto al tetto assegnato dall'accordo di Kyoto. 

Secondo quanto ricostruito dalla procura, le organizzazioni acquistavano i certificati con società fittizie che producevano solo fatture. Acquistavano senza pagare l'Iva, l'aggiungevano e vendevano i certificati ad altre società, anch'esse fittizie, intermediarie con gli ingari acquirenti finali. Incassavano l'Iva, chiudevano i battenti e sparivano nel nulla, dirottando i soldi su conti correnti tra Cipro e Hong Kong. Destinazione finale dei soldi: i fondamentalisti islamici.

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