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Giovedì, 25 Aprile 2024
Il caso

I ragazzi che l'Italia ha dimenticato in cella in India: e non sono i marò

Tomaso ed Elisabetta sono in carcere dal sei febbraio 2010: condannati all'ergastolo per omicidio ma "il movente - scrive il giudice - non si può dimostrare per insufficienza di prove". E il nove settembre sapranno il futuro

ROMA - Non dormono nell'ambasciata italiana di New Delhi ma in una cella con altre centoquaranta persone. Non hanno avuto un Paese al loro fianco quando hanno rischiato la pena di morte. Non sono stati assistiti da avvocati italiani, ma da uno studio indiano pagato a loro spese. Eppure sono italiani anche loro. Sono nati nel Belpaese proprio come Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò italiani trattenuti in India dal febbraio del 2012 per l'omicidio di due pescatori indiani; i due italiani per il quale i vari governi che si sono scambiati le poltrone in Parlamento tanto hanno provato a fare e tanto ancora dovranno fare. Ma quando Latorre e Girone cominciavano la loro via crucis - perché anche per loro è di quello che si tratta - Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni combattevano già due anni provando a far emergere quella che giurano sia la verità, provando a non dimenticare quell'Italia che non vedono da quattro anni perché chiusi in una cella di Varanasi, città sacra sulle sponde del Gange.  

Tomaso Bruno è di Albenga, provincia di Savona, Elisabetta Boncompagni di Torino: la loro storia comincia all’inizio del 2010. Entrambi - racconta L'Espresso che ripercorre le tappe della vicenda - lavorano a Londra e partono per un viaggio in India insieme a Francesco Montis, il compagno di Elisabetta. La notte del 4 febbraio i tre sono a Varanasi e - sono loro stessi ad ammetterlo - fanno uso di hashish ed eroina. La mattina dopo, la tragedia. Francesco non dà segni di vita e gli amici lo portano subito all’ospedale, dove viene dichiarato morto. L'amico, Tommaso, e la compagna, Elisabetta, vengono arrestati con l’accusa di omicidio volontario di stampo passionale. Il lungo e tortuoso percorso giudiziario comincia qui: dopo un anno di detenzione il p.m. chiede la condanna a morte per impiccagione. Il 23 luglio 2011 sono condannati all’ergastolo, a fine settembre 2012 la pena è confermata in appello. Da allora i due italiani aspettano in carcere la sentenza della Corte Suprema di Delhi: dopo mesi di rinvii, martedì 9 settembre dovrebbe essere scritta la parola fine sulla storia. 

Una storia che, a prima impressione, sembrerebbe "normale". Un morto, l'arresto, il regolare processo e la condanna: il tutto in tempi neanche troppo lunghi se paragonati alla vicenda marò. Ma qualcosa che non torna, in fondo, c'è. La condanna, ad esempio, - racconta ancora L'Espresso - si basa sui risultati della prima autopsia sul corpo di Francesco Montis, un'autopsia realizzata da un medico oculista, che ha rilevato la morte per asfissia da strangolamento. La controperizia fatta eseguire dagli avvocati dello studio Titus di Delhi - necessaria in un processo - ha evidenziato che la morte fu causata sì per asfissia, ma non da strangolamento. La terza perizia, che probabilmente avrebbe cancellato ogni dubbio, non è stata mai eseguita perché il corpo di Francesco fu subito cremato. 

Ma le stranezze non finiscono qui. Perché se nel gioco delle parti può essere comprensibile che le perizia di accusa e difesa diano risultati contrastanti, è lo stesso giudice ad ammettere che la sentenza di condanna è monca. "Il movente che ha spinto i due accusati ad uccidere Francesco Montis - scrive nel dispositivo di condanna - non si può dimostrare per insufficienza di prove. Tuttavia si può comunque ipotizzare che Tomaso ed Elisabetta avessero una relazione intima illecita". 

Un'ipotesi, questa del giudice, che non ha mai avuto riscontri e che si basa sulle convinzioni sociali indiane. "una ragazza che dorme in albergo con due ragazzi può essere normale in occidente - hanno spiegato alle famiglia gli avvocati - mentre in India è una situazione inusuale, non socialmente accettata". Per ora tanto è bastato all'India per rinchiudere Tomaso ed Elisabetta nel carcere di Varanasi. "E' una struttura particolarmente dura rispetto ad altre prigioni indiane - racconta a L'Espresso la madre di Tomaso, Marina Maurizio - Le celle sono sovraffollate e le condizioni igieniche disastrose". Dormono per terra su strati di stuoie e coperte. Bevono acqua non potabile, che devono procurarsi da un pozzo comune in mezzo al carcere, nei bagni non c’è acqua corrente ed è vietato usare la carta igienica perché intasa i tubi. 

Non esattamente l'ambasciata italiana a New Delhi. Eppure l'Italia sembra essersi dimenticata di Tomaso ed Elisabetta. 

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