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Venerdì, 29 Marzo 2024
Politica

L'Italicum di Matteo&Silvio: l'accordo e la voglia di urne

Berlusconi ha ceduto sul doppio turno, Renzi ha ceduto sulle liste bloccate. Alfano ha rinunciato alla circoscrizione nazionale. Tre sottrazioni e un risultato algebrico: la genesi di un sistema bipolare e la fine delle larghe intese. Ecco lo scenario del dopo Porcellum

ROMA - Tanto per far chiarezza: c’è il patto tra Renzi, Berlusconi e Alfano; c’è la posizione di un pezzo di Pd che si porta dietro le riserve del Nuovo centrodestra e quelle dei Popolari di Mauro; e poi ci sono gli scenari o, detta nella versione colorata, la fantapolitica. Che a volte diventa politica.

ITALICUM – Né il sindaco d’Italia, né il Mattarellum modificato e neppure lo spagnolo. Il leader del Pd e quello di Forza Italia, in raccordo con il vicepremier, hanno optato per un quarto modello, l’Italicum. Il nome gli è venuto davvero male e più che una legge elettorale ricorda un treno dalle vicende bastarde. Pazienza. Nel merito: sistema proporzionale su micro circoscrizioni; liste corte e bloccate, senza preferenze; soglia di sbarramento per l’accesso delle forze politiche in Parlamento (il 5% per i partiti coalizzati, l’8 per chi sceglierà la via solitaria, il 12% per le coalizioni); premio di maggioranza che scatta sopra il 35% e che assegnerà dal 53 al 55% del totale dei seggi; ballottaggio tra le due forze politiche più votate, singole o coalizzate, nel caso che nessuno al primo turno raggiunga la cifra stabilita per accedere al premio di maggioranza.

Berlusconi ha ceduto sul doppio turno, spinto da Renzi e da Alfano. Renzi ha ceduto sulle liste bloccate, veto non aggirabile dal Cavaliere. Alfano ha rinunciato alla circoscrizione nazionale. Tre sottrazioni e un risultato algebrico: la genesi di un sistema bipolare e la fine delle larghe intese. Non secondo Giovanni Sartori, il decano della politologia italiana che, sul Messaggero, ha definito il patto un “pasticcio su un pasticcio, con la minoranza – per via di un premio troppo altro – che si fa maggioranza”. Critico anche sul doppio turno pensato nell’impianto “che funziona solo se concorrono i partiti con i loro leader e non le coalizioni”.

C’è l’accordo di massima sulla bozza di legge. E c’è tutto il resto, o meglio l’altra parte dell’intero, del “pacchetto”: la trasformazione della Repubblica parlamentare da bicamerale perfetta a monocamerale con la soppressione del Senato; la riforma del titolo V della Costituzione, quello che riguarda le Regioni e la loro autonomia. Fin qui il grosso della questione.

RESISTENZE – Poco oltre, i problemi. I più grossi in casa Partito democratico, dimissioni di Gianni Cuperlo dalla presidenza del Pd comprese. Dentro le anime del Pd – titolo suggestivo e non è un film – il nodo sta in un concetto: dibattito interno e preferenze (che prima non voleva nessuno). Il segretario dei ‘dem’ è stato chiaro: “Se salta l’accordo sull’Italicum, salta il banco”. E si aprirebbe una stagione bigia: capolinea del governo Letta, elezioni in primavera. “Non è un ricatto ma una considerazione”, ha detto nella tarda serata di ieri Renzi ai parlamentari del Pd. La minoranza interna al partito, tuttavia, nel faccia a faccia a poche ore dall’addio di Cuperlo, ha posto sul tavolo tre accorgimenti: la soglia dal 35 al 38%, sbarramento più basso e l’introduzione delle liste aperte. E Renzi? Ha piantato due paletti fissi, irrinunciabili: premio di maggioranza e ballottaggio, “per il resto se riuscite a migliorare la riforma, se siete più bravi di me vi lascio la sedia...”. Il “più bravi” sta a significare che le modifiche avranno vita se troveranno in Parlamento (dal 29 gennaio la legge approderà in aula) l’accordo di chi ha sottoscritto il patto. E in questo ha chiamato in causa Alfano: “Il centrodestra sta con Berlusconi, convincano lui e ci facciano sapere. Se Alfano convince Forza Italia a modificare le soglie di sbarramento, le cambiamo. Ma deve essere d'accordo FI”.

Ad Alfano, quindi, che vorrebbe limare la quota dello sbarramento e introdurre le preferenze, il compito di trovare la quadra a destra. Possibile far risultato nella prima partita, impossibile che si riapra in Forza Italia la questione preferenze. Se il vicepremier preme – “Perché mantenere allora l’aspetto che ha reso più odiosa questa legge da parte dei cittadini che non la sopportavano più? Fateli scegliere” –, Fi non si sposterà di un millimetro. Il perché sta in un ragionamento storico e culturale. Nel ventennio berlusconiano il centro destra ha gravitato, strutturandovisi, sempre e solo su Berlusconi. Un partito persona, leaderistico, non territoriale ma televisivo. La faccia, non la geografia. Le liste aperte costringerebbero Fi – a differenza del Pd che beneficia della tradizione geografica e spaziale del Pci – ad attingere consenso in loco. In terra, non in etere. Ma per farlo c’è bisogno di circoli, capillarità, quella sconosciuta al movimento fondato dal Cav che in certe zone del Paese è presente giusto nei manifesti elettorali. In definitiva il testo appare blindato, da qui all’approvazione dovrebbe agghindarsi di pochi e leggeri ritocchi. E il più indiziato a qualche colpetto di forbice appare premio di maggioranza.

SCENARI – Se il percorso riformatore andrà avanti spedito, l’esecutivo avrà più ossigeno per camminare. Pochi intoppi nel cammino, il via libera al dopo Porcellum e alle riforme, quelle naufragate nella Bicamerale, quelle di cui si sente parlare da oltre trent’anni. Tempo prezioso per Letta, che in questo potrebbe cercare di svuotare il paniere delle buone intenzioni: lavoro, scuola, norme per favorire l’impresa. Certo, con la fretta che gli richiede Renzi: “O gli mettiamo fretta o non ci crederanno più”. E con diverse fascine in magazzino a maggio, quando si voterà per le europee, il primo banco elettorale dell’era Renzi. Lì il segretario del Pd vorrebbe presentarsi, non a chiacchiere ma con i fatti, come l’uomo nuovo, quello che nel giro di un mese ha rivoluzionato l’architrave istituzionale e ha ridato agli italiani una legge elettorale credibile. “Chiamate Goldrake, più di così non potevo arrivare”, ha detto ieri sera a Porta a Porta.

Ma poi ci sono gli spifferi. Quelli delle finestre, delle porte, quelli che raccontano del sindaco proiettato verso il voto. Pronto a cogliere la prima palla al balzo buona. Chiaramente una volta messa la legge elettorale in saccoccia (che, dicono i renziani, funzionerebbe anche al Senato una volta tolto di mezzo il premio di maggioranza regionale). Il perché della voglia di urne sta nei numeri. Dal sondaggio di Ballaró il Pd si attesta al 33%, Forza Italia al 22,7, Movimento 5 Stelle al 20,8, Ncd al 6,4, Lega al 3,5. Numeri che fanno pensare anche ad un’ipotetica corsa solitaria del Partito democratico con alla testa il sindaco/segretario. Con Vendola che, probabilmente, messa da parte la subalternanza di Renzi al liberismo, farà di tutto per coalizzarsi con il vettore buono per varcare la soglia parlamentare.

A destra invece, se si spalancasse la via delle urne, molto probabilmente si ripresenterà un vecchio schema. Una rivisitazione della Casa della Libertà creata ad arte per vincere in prima battuta, visto che l’elettorato moderato, pigro alla doppia chiamata nel giro di quindici giorni, si farebbe maciullare in un eventuale testa a testa con il Pd. Forza Italia in prima linea, seguita, a braccetto, da Alfano e Ncd – da soli rischierebbero di star fuori e il vicepremier ricalcare il tramonto di Gianfranco Fini –, Casini e la Lega. Ma come Alfano di nuovo con il Cav? Sì, succede già negli accordi per le amministrative, succederà al momento opportuno, quando i due si presenteranno sorridenti, a braccia alzate, in un palco pre-elettorale. Storia vecchia e già vista. Un po’ perché Berlusconi, siglata di suo pugno la trattativa con Renzi ha messo in chiaro chi sia il ‘padrone’ del centrodestra (e in questa nuova legittimazione, dopo l’interdizione e la cacciata da Palazzo Madama, il sindaco gli ha dato sicuramente mano) e, in questo, ha nuovamente allungato le mani sulla vita del governo Letta. Un po’ perché Alfano, non tornerà a casa a mani vuote, come ha fatto sapere ai fedelissimi: “Se Silvio vuole davvero vincere alla prima botta avrà bisogno dei nostri voti. Non torneremo da lui con il cappello in mano”.

GRILLO – E il Movimento 5 Stelle. In queste ore, il partito di Grillo veleggia in alto mare. Lo danno al 20,8% e non è poco, anzi sono milioni di voti. Che tuttavia oggi non basterebbero ad oltrepassare il muro del primo turno. Stessa sorte se il Movimento si confermasse sulle percentuali delle politiche di febbraio. Da qui due vie obbligate: o la creatura di Grillo si prenderà la medaglia d’oro dei consensi, che vorrebbe dire un balzo in avanti che lo catapulterebbe oltre il 30% dei voti, oppure sarà stritolato dalla polarizzazione dell’Italicum. E dal tempo dello stare in minoranza.

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