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Giovedì, 28 Marzo 2024

Guerra in Ucraina, all’Italia serve una moderna “battaglia del grano”?

La guerra scopre nervi che in tempo di pace restano dissimulati. Ma sotto traccia, gli assetti economici non fermano mai il loro divenire e prima o poi, la storia chiede il conto. Nel caso del conflitto russo-ucraino ne fanno le spese i nostri granai, che si scoprono mezzi vuoti proprio nel momento in cui nel Mar Nero e nel Mar D’Azov vengono bombardate le navi cariche di frumento diretto in Italia. Un bel problema quello di dipendere dalle importazioni di materia prima, se sei il Paese al primo posto nel Mondo per consumo di spaghetti e rigatoni. E se, in ogni angolo del Pianeta, un piatto di pasta su quattro viene dai tuoi pastifici. Nemmeno a dirlo, la Russia è il principale esportatore di grano a livello globale mentre dall’Ucraina (il “granaio d’Europa”) importiamo il 5% del fabbisogno nazionale. Non sarà che aver reso svantaggiosa la produzione di casa nostra sottopagando gli agricoltori italiani a vantaggio di acquisti speculativi sul mercato estero, sarà stata la ragione principale della scomparsa di un campo di grano su cinque negli ultimi dieci anni? Risultato: importiamo il 64% tra grano duro e tenero ma abbiamo tre milioni e mezzo di terreni abbandonati. I quali vanno a finire (in gran parte) per diventare superficie forestale. Che infatti nel giro di dieci anni è aumentata per il 18,4%. Una “battaglia del grano” del terzo millennio farebbe valere il riconoscimento del giusto prezzo agli agricoltori, il recupero di superfici preziose per il ripristino degli ecosistemi e della produttività, oltreché traghettarci verso la strategia europea di riduzione dei pesticidi entro il 2030.

“Quello che arriva da Russia e Ucraina - spiega a Today il senatore Saverio De Bonis, membro della Commissione Agricoltura del Senato - è per lo più grano tenero impiegato per la maggior parte dall’industria dolciaria, e mais per l’alimentazione del bestiame. Con il grano duro invece si produce la semola per l’industria della pasta tricolore, che importa per lo più da Canada, Europa, Messico e Stati Uniti. Peraltro, da oltreoceano arrivano carichi che non hanno le stesse nostre restrizioni sull’uso dei pesticidi, come il glifosato. Siamo sì un Paese trasformatore, ma se non poniamo enfasi sulla nostra disponibilità strategica di materie prime rischiamo di rimanere senza pane né pasta, con prezzi alle stelle. Sfruttando i nostri terreni abbandonati vocati a cereali, potremmo recuperare superfici e diventare leader nella produzione di derrate biologiche. Fornendo agli industriali quelle materie prime che adesso non sanno dove andare a recuperare. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza i fondi ci sono, vanno intercettati e dimostrata la volontà. Ma finora niente”. “Terreni marginali” si chiamano, perché il loro vero problema è trovarsi in zone con un clima che non permette gli alti margini di resa e profitto dei latifondi della Pianura Padana, come quelle siccitose della Sicilia. “Negli ultimi decenni - conclude De Bonis - il settore primario è stato una cenerentola. Questa guerra ci farà capire il valore dell’agricoltura”. Intanto però, la Commissione Sperimentale Nazionale sul grano duro istituita dal Ministero delle Politiche Agricole è stata disertata per quindici settimane consecutive dagli imprenditori. Servirebbe a calmierare il mercato, per giungere ad un prezzo provvisionale da riconoscere a chi lavora in campo tutti i giorni.

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