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Giovedì, 28 Marzo 2024

Serena Console

Giornalista

Quanto un governo può decidere sul corpo e sulla vita delle donne?

Quando una donna può decidere di interrompere la gravidanza? La risposta cambia in base al Paese in cui si vive. In Italia una donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Dopo anni di lotta guidata dal movimento femminista italiano, nel 1978 è stata approvata la legge 194 che ha sancito un cambiamento culturale importante sul tema della sessualità e dell’autodeterminazione in merito alle scelte procreative delle donne. Una condizione precedentemente non contemplata, che portava il peso – storico e morale – dei reati previsti dal “codice Rocco” di epoca fascista. Nel corpus legislativo firmato nel 1930 dal guardasigilli del governo Mussolini, Alfredo Rocco, erano previsti i reati de “l’aborto di donna consenziente”, l’aborto di donna “non consenziente”, “l’autoprocurato aborto” e la “istigazione all’aborto”, con pene detentive fino a 12 anni.

Le donne erano quindi vittime di una concezione culturale e ideologica, che le inquadrava per il loro ruolo procreativo. L’approvazione della legge 194 è stata segnata da una più grande rivoluzione avvenuta negli Stati Uniti, quando la Corte Suprema con la storica sentenza del 1973, la Roe vs Wade (Roe contro Wade), ha stabilito che la Costituzione degli Stati Uniti protegge la libertà di una donna di scegliere di abortire, senza eccessive restrizioni governative. Ora quella tutela, che ha garantito a numerose gestanti di esercitare il proprio diritto sul proprio corpo e sulla propria vita, sta svanendo. A segnare un’inversione di rotta sono gli Stati a guida repubblicana. Il primo Stato a mettere in discussione il principio federale è il Texas, che ha approvato una delle più restrittive norme sull’aborto: dal settembre 2021, l’interruzione di gravidanza è diventata illegale dopo sei settimane dall’inizio della gestazione. La restrizione ha spinto così molte donne a rivolgersi alle cliniche del confinante Stato dell’Oklahoma, nonostante gli alti prezzi e i lunghi tempi di attesa. C’è chi ha accettato di spostarsi così lontano e sobbarcarsi i costi elevati di benzina, voli, soggiorni in hotel e cure sanitarie (in Usa il sistema sanitario nazionale è a carico del cittadino, fatta eccezione dei recenti programmi assistenziali pubblici come il Medicare e Medicaid).

Il fenomeno delle trasferte dal Texas all’Oklahoma ha avuto però vita breve. Il Congresso dello stato americano dell’Oklahoma, a maggioranza Repubblicana, ha recentemente approvato una legge che vieta quasi del tutto l’aborto, permettendolo solo in caso di grave pericolo per la vita della donna incinta. La legge dell’Oklahoma, conosciuta come Senate Bill 612, prevede una multa fino a 100mila dollari e pene fino a dieci anni di carcere per i medici o le donne che eseguono le interruzioni di gravidanza all’interno dello Stato conservatore. La storica sentenza Roe vs Wade, che dal 1973 garantisce l’accesso all’aborto a livello federale, rischia inoltre di essere ribaltata dalla legge sull’aborto del Mississippi, la cui legittimità è dibattuta attualmente dalla Corte Suprema americana.

La lotta all’interruzione di gravidanza ha alimentato il dibattito nazionale sul ruolo del governo e sui diritti delle donne. I cambiamenti stanno delineando un nuovo profilo degli Usa, alimentando la frustrazione e la rabbia delle donne che vedono l’esecutivo sempre più presente nella vita personale di ogni cittadino. La domanda, retorica, è: quanto un governo può decidere sul corpo e sulla vita delle donne? È riduttivo quindi ritenere che nella società odierna il corpo non sia di demanio pubblico. Quanto sta avvenendo negli Stati Usa è la dimostrazione della miopia politica (a trazione maschile) che ignora l’impatto violentissimo che queste scelte hanno sulla vita delle donne.

Per questo serve guardare oltreoceano per capire cosa può succedere nel nostro Paese. Il lungo scontro politico che ha avuto luogo nel parlamento italiano dal 1973 al 1976, prima dell’approvazione della legge 194, ha permesso alle donne di divenire protagoniste delle proprie scelte e necessità. Il dibattito sul tema ha portato al noto referendum abrogativo del 1981 che ha visto una sconfitta della tesi difesa dal Movimento per la vita, di ispirazione cattolica, che non è riuscito a contrastare la forza comunicativa del Partito Radicale, dei partiti laici PRI e PLI, dei socialisti PSI e PSDI e del PCI. Oltre il 68 per cento dei votanti ha detto ‘No’ all’abrogazione della legge.

A più di quarant'anni dall’adozione della 194, il pieno accesso all'interruzione volontaria di gravidanza come prevista dalla legge resta ancora tutto da garantire. Il freno viene premuto dai professionisti sanitari obiettori di coscienza. Una garanzia prevista dall’articolo 9 della stessa norma del 1978. Ma la legge è chiara e disciplina esplicitamente che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenute “in ogni caso ad assicurare” il pieno svolgimento dell’interruzione volontari di gravidanza. L’obiezione legale deve cioè riguardare il singolo camice bianco e non l’intera struttura. Nonostante la chiarezza della legge, che vieta quindi l’obiezione di coscienza dell’intera struttura ospedaliera, in Italia ci sono almeno 15 ospedali con il 100 per cento di ginecologi obiettori, che si sottraggono alla procedura per motivi religiosi o ideologici.

Queste strutture, quindi non garantiscono una prestazione sanitaria disciplinata da una norma che si presenta più progressista dei tempi che viviamo. La legge 194 è una legge imperfetta, certamente migliorabile, ma è degna di un Paese che ha gridato nelle piazze lo slogan “L’Utero è mio”. Non silenziamo questo slogan, anzi urliamolo e difendiamolo per allontanare lo spettro della repressione sull’autodeterminazione femminile. Come sta accadendo in alcuni Stati americani.

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