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Venerdì, 29 Marzo 2024
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Aborto farmacologico solo in ospedale in Umbria, i ginecologi Aogoi: "Rivedere le procedure a livello nazionale"

Dopo le polemiche sulla decisione della Regione Umbria, il ministro della Salute Speranza ha richiesto un nuovo parere sul metodo farmacologico. La dottoressa Viora dell'Aogoi a Today ribadisce la necessità di "estendere l'utilizzo temporale del farmaco e ampliare l'utilizzo anche in regime non ospedaliero", per tutelare la salute delle donne e l'accesso alla 194

La decisione della giunta di centrodestra in Umbria di abrogare la delibera della precedente amministrazione di centrosinistra che aveva introdotto nel dicembre 2018 il regime di day hospital per l'aborto farmacologico ha suscitato, come era da aspettarsi, ulteriori polemiche. D'ora in poi sarà necessario programmare un ricovero in ospedale di tre giorni. "Mi limito ad applicare le linee guida del ministero della Sanità", ha detto questa mattina la presidente della Regione Umbria in un'intervista a Repubblica. Le lineee guida citate da Tesei sono le indicazioni ministeriali che risalgono al 2010 e indicano la necessità del regime di ricovero ordinario per le donne che scelgono di effettuare l'aborto farmacologico, lasciando però libere le Regioni di organizzarsi diversamente, come aveva fatto la Regione Umbria nel 2018 con la delibera dell'amministrazione di Catiuscia Marini. Questa prevedeva la possibilità di abortire grazie alla pillola RU486 entro la settima settimana di gravidanza e la richiesta agli ospedali di organizzarsi per dare le possibilità alle donne di interrompere la gravidanza grazie a una prestazione di day hospital o anche solo grazie a un servizio di assistenza domiciliare.

In mattinata è intervenuto il ministro della Salute Roberto Speranza, che ha annunciato di aver richiesto un parere al Consiglio superiore di sanità (Css), alla luce delle più recenti evidenze scientifiche, "in merito alla interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico. L'ultimo parere in materia era stato espresso dal Css nel 2010", come sottolinea una nota del ministero.

Consiglieri regionali di opposizione hanno accusato la delibera di complicare "in maniera strumentale l'accesso all'interruzione di gravidanza farmacologica", rendendo "volutamente ad ostacoli il percorso per ottenere l'opzione farmacologica, aumentando le spese del sistema sanitario regionale e, in epoca Covid, allungando paradossalmente le degenze", ricordando come ad aprile le società scientifiche di ginecologia e ostetricia si fossero dette favorevoli a una maggiore diffusione dell'aborto farmacologico, a tutela della salute e dei dritti delle donne, che rischiavano di essere negati a causa dell'emergenza sanitaria in corso.

Per realizzare la piena applicazione della procedura farmacologica (che può essere utilizzata anche in caso di diagnosi di aborto interno), gli esperti sottolineavano infatti la necessità di rivedere alcuni aspetti delle procedure vigenti. Chiedevano infatti di spostare il limite del trattamento da 7 a 9 settimane e ad eliminare la raccomandazione del ricovero in regime ordinario dal momento della somministrazione del mifepristone (meglio conosciuto con il nome di RU486) a quell'espulsione, insieme all'introduzione del regime ambulatoriale che prevede un unico passaggio nell’ambulatorio ospedaliero o in consultorio, con l’assunzione del mifepristone, e la somministrazione a domicilio delle prostaglandine, procedura già in uso nella maggior parte dei Paesi europei.

La dottoressa Elsa Viora, presidente dell'Associazione Ostetrici Ginecologici Ospedalieri (Aigoi) ribadisce oggi questa posizione dopo la decisione della giunta Tesei. "Quello che ha fatto la Regione Umbria è stato ribadire quelle che sono le normative. Possiamo essere d'accordo o meno, tutto sommato ha le sue motivazioni. Quello che a noi interessa è che però che si agisca a livello centrale e si arrivi a definire delle regole a livello nazionale. Stiamo lavorando su questo e le cose stanno andando avanti", dice a Today. "Il ministro della Salute ha chiesto un parere al CSS, quindi tutto sommato pensiamo che questo percorso che avevamo indicato sia stato in qualche modo recepito. Le indicazioni devono arrivare a livello ministeriale, in modo da chiarire questo tipo di situazioni. Ogni singola regione può prendere le decisioni, almeno fin quando non c'è una posizione ufficiale degli istituti centrali. Si vada avanti, vediamo che cosa succederà".

"La nostra posizione è questa: che si possa estendere l'uso del farmaco a 9 settimane compiute, quindi a 63 giorni, anziché le sette settimane e 49 giorni di adesso, e che si possa ampliare l'utilizzo anche in regime non ospedaliero. Queste per noi sono due richieste fondamentali. Ovviamente tutto ciò richiederà un'organizzazione, una preparazione da parte dei consultori, delle organizzazioni territoriali, una formazione degli operatori. Tra poco sarà online un corso proprio per formare gli operatori sull'utilizzo di questo farmaco. Bisogna formare medici e operatori e noi ci stiamo adoperando per farlo, considerando le varie problematiche legislative, organizzative e formative".

Per Viora il primo pensiero è "tutelare la salute delle donne" e "questo significa anche tutelare l'accesso alla legge, perché la 194 è una legge dello Stato". Questo farmaco, ricorda inoltre la dottoressa, "in quasi tutto il mondo è utilizzato fino a 63 giorni, avviene ormai da decenni. Non è una sperimentazione, non è una novità. Si tratta semplicemente di rendere friubile anche in Italia una possibilità che già esiste in altri Stati europei. Non è nulla di nuovo".

"La Lega ha portato avanti una campagna di terrore: le complicanze dell'aborto farmacologico sono pressoché inesistenti", ribadisce all'Adnkronos Salute Silvana Agatone, presidente della Libera associazione italiana ginecologi (Laiga) per l'applicazione della legge 194/78 sull'aborto. "In un momento in cui gli Stati più avanzati dal punto di vista scientifico, sotto emergenza Covid-19, stanno facilitando le Ivg – spiega Agatone - non capiamo bene perché fare un passo indietro del genere. Eppure si sa che ancora prima dell'emergenza, ai tempi delle prime 'zone arancioni', le donne nelle loro città soprattutto al Nord già trovavano gli ospedali chiusi, dato che gli aborti venivano considerati non urgenti. Risultato: alcune hanno dovuto portare avanti gravidanze indesiderate pur essendo in terapia con farmaci pericolosi per il feto: hanno subito ritardi anche le diagnosi prenatali, ed è stato un problema per le donne poi accedere all'interruzione terapeutica della gravidanza. In Italia – conclude la dottoressa - sono comunque ancora oggi molto pochi i centri che danno accesso all'aborto farmacologico: gli ostacoli permangono, dall'obiezione di coscienza alla mancata fornitura da parte dei servizi farmaceutici degli ospedali".

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