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Giovedì, 25 Aprile 2024
La riflessione / Milano

La storia di Alberto Genovese dimostra che il maschilismo uccide e rovina vite

Quello che ha fatto l'imprenditore digitale è paradigmatica e dimostra come un certo mondo consideri le persone oggetti da possedere grazie ai milioni guadagnati

Esiste un male che non siamo ancora in grado di combattere. Un male che striscia costantemente nelle nostre vite quotidiane, che tolleriamo nei piccoli gesti, con le battutine, con i sorrisi complici. Non ci rendiamo conto di quanto male possa fare fino a quando non ci troviamo di fronte a fatti di cronaca eclatanti. La realtà è che il maschilismo, ancora adesso nel 2020, fa vittime. Uccide donne o rovina loro la vita. L'ultimo esempio ci viene fornito dalla storia di Alberto Genovese. Una storia per certi versi paradigmatica. Maschio di mezza età, all'apice del successo, un guru nel suo campo, il digital, con un patrimonio milionario. L'uomo che “non deve chiedere mai” diceva una pubblicità degli anni '90. Da allora sono passati 30 anni ma ci sono ancora tantissimi uomini che non chiedono mai.

Il maschilismo è un male trasversale

Genovese è, infatti, accusato di aver violentato una ragazzina di 18 anni. Una giovane donna che poteva essere sua figlia ma che non ha avuto remore a drogare per poi abusare di lei. Ha continuato a drogarla ogni volta che provava a riprendere conoscenza e ha trattato il suo corpo “come una bambola di pezza” come ha scritto il magistrato che ne ha ordinato l'arresto. Una condotta fredda, calcolata, tanto da poi chiedere a un tecnico informatico di cancellare le immagini dalle telecamere di sorveglianza. Ebbene Genovese rappresenta al meglio quanto tossica possa essere la mascolinità in certi ambienti. Sfatando anche un pregiudizio sociale secondo cui sono solo certi ambienti degradati a favorire certi atteggiamenti. No, il maschilismo è un male trasversale, che unisce tutti i ceti sociali. Se nel gradino più basso della scala sociale può essere mosso dalla violenza che contraddistingue le relazioni, in quello più alto è giustificato dalla volontà di possesso. Dall'idea cioè che tutto possa essere comprato grazie al denaro e per questo tutto possa essere considerato oggetto. Anche le donne viste come un complemento d'arredo, nel migliore dei casi, o come una bambola del piacere da utilizzare a proprio piacimento, nel peggiore.

Posso ottenere tutto, anche lei 

Ma qui non parliamo esclusivamente di piacere tossico. Qui parliamo realmente di volontà di possesso. “Lei è mia e io l'avrò. Perché ho ottenuto tutto nella vita figuriamoci se non riesco a conquistare lei”. Questa declinazione del maschilismo, la narrativa secondo cui l'uomo è conquistatore, cacciatore e altre amenità, trova terreno fertile in gangli della società dove “vincere è l'unica cosa che conta”. In posti dove ci sono persone che, forti delle loro ricchezze, si chiudono in torri d'avorio come la villa che Genovese aveva al centro di Milano. Un'alcova a cui, nella sua visione distorta delle relazioni, chiunque voleva avere accesso doveva fare i conti col fatto che poi avrebbe dovuto concedersi completamente, senza limiti. La “fortuna” di accedere a quel mondo privato doveva essere ripagata a qualsiasi costo, autorizzandolo anche alla violenza sessuale, pur di ottenere ciò che voleva il padrone di quel mondo dorato. Sono passati degli anni anche dal movimento “MeToo” ma le cose non sembrano essere cambiate. Fino a quando non capiremo che è il maschilismo il vero problema, saremo sempre punto e a capo.

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