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Sabato, 20 Aprile 2024
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Covid, il nuovo studio: "Con antinfiammatori ospedalizzazioni ridotte di oltre l'80 per cento"

I farmaci non steroidei (Fans) pare abbiano ridotto la possibilità di incorrere in gravi polmoniti tipiche degli effetti del Covid e quindi di finire in ospedale, Pregliasco: "Le linee guida sono chiare, ma occhio al cortisone"

Gli antinfiammatori potrebbero ridurre gli effetti peggiori del Covid, abbassando la quota delle ospedalizzazioni e favorendo un decorso migliore della malattia. Secondo un lavoro pubblicato su Lancet dal titolo "La casa come nuova frontiera per il trattamento di Covid-19: il caso degli antinfiammatori" e condotto dall'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e dall'Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, la terapia a base di antinfiammatori non steroidei avviata con determinate tempistiche riduce considerevolmente il rischio di ospedalizzazione. Il campione preso in esame riguarda oltre 50mila pazienti ed è stato ricavato da tutti gli studi pubblicati su riviste scientifiche di valore pubblicati tra il 2020 e il 2021 (inclusi due lavori dello stesso Istituto Mario Negri). Vediamo di cosa si tratta e cosa ne pensa il virologo Fabrizio Pregliasco, che ha commentato lo studio. 

Lo studio sugli antinfiammatori

Lo studio ha analizzato l'efficacia dei Fans, i farmaci antinfiammatori non steroidei, nel trattamento delle forme lievi e moderate di Covid che non richiedono il ricovero: dopo la terapia a base di antinfiammatori avviata all'inizio dei sintomi Covid gli accessi al pronto soccorso e le ospedalizzazioni sono scese dell'80 per cento, mentre le sole ospedalizzazioni dell'85-90 per cento. Oltre a diminuire la quota degli ospedalizzati, la terapia a base di antinfiammatori ridurrebbe il tempo di risoluzione dei sintomi accorciandolo dell'80 per cento, e abbattendo, in più, il ricorso all'ossigeno del 100 per cento. I Fans diminuirebbero considerevolmente dunque, la probabilità di avere una polmonite bilaterale interstiziale, un decorso grave tipico del Covid.

Questa reazione è scatenata da una eccessiva risposta del nostro sistema immunitario che distrugge le cellule infette ma provocando dei danni, soprattutto a livello polmonare. Il ricorso ai farmaci antinfiammatori non steroidei potrebbe attenuare la risposta immunitaria, favorendo un migliore decorso della malattia, diminuendo i sintomi e abbassando le probabilità di essere ospedalizzati. In vista dell'autunno un adeguato ricorso ai farmaci da usare in casa nelle prime fasi dell'infezione potrebbe contribuire ad alleggerire la pressione sugli ospedali, insieme ai nuovi vaccini aggiornati e agli antivirali. 

Pregliasco: "In ogni caso non si abiurano le indicazioni che già abbiamo"

"Questo studio ridà una conferma a ciò che si era via via già conosciuto con il passare del tempo. Ovvero la situazione terribile della polmonite interstiziale, di fatto, è un'eccessiva risposta infiammatoria non correttamente governata dell'organismo, che in un tentativo maldestro scatena un' infiammazione elevatissima a livello degli alveoli polmonari che però aumenta, ispessisce, le pareti degli alveoli e riduce la capacità di scambio gassoso". Ha commentato così alla Dire il virologo dell'università Statale di Milano, Fabrizio Pregliasco, riguardo i dati della ricerca sulla terapia a base di antinfiammatori. "Proprio come avevamo già evidenziato- continua l'esperto- la differenza tra un andamento benevolo, o comunque con una risoluzione più o meno rapida e impegnativa, e quel gioco della tempesta citochimica a cinque giorni. Ovvero, chi scatena questa tempesta citochinica eccede nella risposta immunitaria, e questo lo fanno, non a caso, soprattutto i più anziani rispetto ai giovani, che governano meglio questa risposta, regolandola al giusto. Ed è da qui poi la conferma che modulando la risposta infiammatoria nelle prime fasi, in qualche modo la patologia viene gestita meglio".

Pregliasco ha sottolineato che "molti colleghi danno il cortisone da subito, che però ha effetti negativi, ha una azione antinfiammatoria più massiccia ma inopportuna. Il cortisone va bene nei momenti in cui la percentuale di ossigeno è bassa. Nel momento in cui si usa questa arma più potente saremo di fronte ad altri effetti collaterali". "Quindi - tiene a precisare - si può parlare di un consolidamento che non deve essere un rovesciamento di un approccio che ci porti a dare ragione a tutti i colleghi che, invece, pensano si possa guarire sempre dalla malattia. Quello che si era sempre detto è stata la 'vigile attesa', presa in giro come definizione anche se in realtà si tratta del monitoraggio del paziente. Nelle fasi emergenziali, a causa delle paure, del numero eccessivo delle persone, non siamo riusciti a governare i primi casi. Oltretutto, perché via via come sempre, le terapie vanno a consolidarsi quando la casistica aumenta. E qui è aumentata tantissimo. Quindi sottolineo che non significa abiurare a ciò che erano le prime indicazioni sull'utilizzo degli antinfiammatori. Vero è che la tachipirina ha un'azione soprattutto antifebbrile, mentre la stessa aspirina o altri hanno un'azione antinfiammatoria più trasversale", conclude.

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