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Venerdì, 19 Aprile 2024

Musulmana e calciatrice: così Assmà sfonda i pregiudizi

Mentre sui social network deflagra l'opinione di un singolo che caccia da una tavolata di calciatori una ragazza "perché donna", c'è un'intera generazione che combatte e vince gli stereotipi con i fatti. Sul campo, gettandosi alle spalle il ritratto agè, e troppo sommario, di una Italia retrograda. È il caso di Assmà Haddadi, 21 anni, trevigiana di origini marocchine, musulmana, che porta il velo e gioca a calcio in barba al contropiede di tanti. È l'emblema di una modernità (normalità) che avanza, figlia della generazione Erasmus e della rivoluzione digitale, e che per forza di cose metterà presto in fuorigioco i rantoli di un'epoca al tramonto schiava dei pregiudizi, anche quelli inconsci. Perché, ci tiene a precisare lei: "Io non sono l'eccezione, ma la regola". 

"Lo sport non ha sesso, alle ragazze dico di darsi valore affinché gli sia riconosciuto"

Assmà porta il velo, gioca a calcio e sogna di diventare una attivista nell'ambito dei diritti umani. "Mi sento libera di non rispettare i canoni sociali, di essere chi voglio e fare ciò che voglio: una ragazza musulmana che gioca a calcio, anche se il pensiero comune vuole che noi donne musulmane siamo oppresse e che, addirittura, non possiamo praticare sport", ci dice al telefono dalla Francia, dove sta preparando un esame per il doppio corso di laurea alla Sorbonne Université, uno in letteratura francese e l'altro in studi iberici e latini. E dove, via social, le è arrivata notizia di quanto successo in Italia nei giorni scorsi: quel fatto accaduto all'influencer Aurora Leone, invitata a lasciare la cena della Partita del Cuore perché 'da quando in qua le donne giocano a calcio?'. Poco dopo, com'è noto, sono arrivate le dimissioni del dg della Nazionale Cantanti Gianluca Pecchini. "Non so come si possa credere, nel 2021, che gli sport abbiano sesso - commenta lei - Penso che chi ha pronunciato certe parole sia molto indietro nel tempo. Alle ragazze di oggi dico di andare avanti a testa alta, di essere fiere di ciò che sono, perché è solo quando una persona dà valore a se stessa che gli altri le riconoscono davvero un valore".

La lotta al pregiudizio, tra religione e sport

I precocetti Assmà li conosce molto bene e, in molti casi, ha "preferito dimenticare", perché le hanno dato "troppo dolore", soprattutto a causa di quel velo in cui tanti vedono sottomissione ma che per lei è un simbolo di libertà, perché "mi ha aiutata a diventare una donna forte, a non ascoltare i giudizi della gente". Nata nel profondo Nord Est d'Italia ma proiettata verso l'Europa, quando scende in campo incarna contemporaneamente tradizione e contemporaneità, l’essere musulmana e l’essere italiana, europea, occidentale. Un simbolo di modernità in un paese a tratti antico in cui "i ragazzi della mia generazione hanno maggiore apertura mentale rispetto alle persone in età avanzata, anche se non se ne parla molto e anche se le scuole fanno poca educazione civica per combattere la semplificazione del pregiudizio". E dove, nel caso invece specifico del calcio - per dirne una - solo la riforma dello sport approvata nei mesi scorsi ha previsto, tra le varie novità, che le donne possano passare al professionismo: fino a ieri le calciatrici (anche quelle impegnate nella Nazionale) non avevano alcun diritto alla tutela sanitaria, perché considerate dilettanti.

Molti i pregiudizi che Assmà si è trovata, suo malgrado, a combattere nel corso della vita. Nessun evento discriminatorio violento, sottolinea, ma "quei commentini quotidiani che ti fanno pensare che sei tu quella sbagliata. Ti portano a pensare che è in te che c'è qualcosa che non va". Molti sono di natura religiosa. "C'è l'idea che una donna musulmana sia oppressa, e che neanche può fare attività sportiva, oltre che costretta a sposarsi senza poter proseguire gli studi. Avviene perché si confondono i paesi arabi, dove coesistono religioni, con quanto invece avviene in Iran". Altri poi quelli radicati nell'immaginario collettivo per la scelta di giocare calcio, arrivata per lei da adolescente, nel ruolo di terzino, dopo un'infanzia trascorsa a guardare le partite con papà e fratello, col mito di Zlatan Ibrahimovic: "Il pensiero comune è che sia uno sport 'per maschi', che le calciatrici, banalmente, non sono belle e non sanno giocare a calcio. Dicono che le ragazze non hanno tecnica e che dunque è noioso guardare una partita perché monotona e priva di quei momenti di tensione in cui il gioco si fa più coinvolgente, ma sono preconcetti". 

"Dicono che non si può essere femminista e musulmana al tempo stesso, ma non è così"

Da chi arrivano di più i pregiudizi? "Sono più radicati nelle persone in età avanzata", sottolinea, "ma sono anche trentenni e quarantenni quelli che commentano più frequentemente con cattiverie postate su Facebook. Nei ragazzi della mia età c'è più respiro mentale, perché assimilano nuove consapevolezze di integrazione giorno dopo giorno, nelle scuole: ma è proprio qui che manca una discussione sul tema e questo avviene perché si crede che certi concetti possono essere dati per scontati". Nel caso del velo, poi, a puntare il dito sono le donne, le cosiddette "femministe" in particolare: "Dicono che non puoi essere femminista e musulmana al contempo: la verità è che non si danno la possibilità di comprenderti davvero". 

La storia di Assmà oggi è diventata un documentario, presentato ufficialmente nelle scorse settimane, perché intercettata dal regista Dimitri Feltrin. E lei per prima proprio non pensava che il suo messaggio di normalità potesse sollevare tante reazioni, soprattutto da parte di tante ragazze musulmane che oggi le scrivono di aver trovato grazie a lei il coraggio per iscriversi alla scuola calcio. "Mi sono resa conto che, purtroppo, c'è ancora molto bisogno di raccontare storie come la mia". E il modo migliore per dimostrare che le cose possono cambiare è sempre lo stesso: metterle in pratica e dare il via alla partita. 

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