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Venerdì, 19 Aprile 2024
Il caso

La madre sottrae il bimbo al papà: lo Stato la condanna, ma resta a guardare

Nonostante le sentenze gli diano ragione ad un 43enne residente nel Trevigiano viene di fatto impedito di fare il genitore. La corte per i diritti dell'uomo stigmatizza i ritardi e le inadeguatezze con cui è stata gestita la vicenda. E lui dice a Today: "Sono disperato"

Chiedeva di fare il padre: gli è stato impedito. E lo Stato è rimasto inerte, incapace di far rispettare quanto stabilito a più riprese dai tribunali. A certificarlo è una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, molto dura nei confronti delle autorità italiane che non avrebbero fatto abbastanza per garantire i diritti di un 43enne residente nel Trevigiano di fare il genitore. Tutto a causa, così almeno emerge da vari pronunciamenti giudizari, dei dinieghi e dell'ostruzionismo dell'ex compagna che di fatto, con vari escamotage, ha intralciato ogni tentativo del padre di avere un rapporto con il figlio.

La vicenda inzia nel 2014 quando, dopo una breve frequentazione, la coppia si separa. La causa scatenante, racconta Stefano (nome di fantasia), fu un litigio, anche se i due convivevano da poco e la loro relazione, dice lui, "non era certo solida". "Lei prese e se ne andò, prima a casa dei genitori, che si erano trasferiti da Roma per stare vicino alla figlia. Abitavano a cento metri da casa mia, ma da quel momento la mia vita è stata un calvario". La madre non gli permette di vedere il bambino, che ha solo pochi mesi, se non in sua presenza e in ogni caso in rari momenti. Lui non ci sta. Inizia la guerra per "carte bollate". Denunce, ricorsi e contro ricorsi.

Le sentenze dei tribunali che danno ragione al padre (ma nulla cambia)

Nel luglio 2016 una sentenza del tribunale di Treviso sembra mettere fine alla querelle: viene riconosciuta "pari dignità ad entrambi i genitori", mentre l'affido ai servizi sociali viene motivato con la necessità "di assicurare il progredire del rapporto e delle frequentazioni padre-figlio". Per Stefano però non cambia nulla. Anzi: come emerge anche da un succesivo pronunciamento del tribunale di Treviso, la madre "non ha mai rispettato il calendario delle visite" e ha "tenuto, in generale, un comportamento ostile e poco collaborativo".

Finché a dicembre del 2016, quando il bimbo non ha ancora compiuto tre anni, la donna si trasferisce a Roma "senza alcun preavviso o autorizzazione", cessando "ogni rapporto con il servizio affidatario ed impedendo" al padre "di avere qualsivoglia rapporto con il figlio". Nel frattempo, qualche giorno dopo il trasferimento nella Capitale, a 600 km dal papà, il bimbo viene ricoverato in ospedale per un problema di salute. Stefano riesce a vederlo solo sotto "il controllo" dell'ex compagna e dei suoi genitori, mai da solo.

Arriva anche la sentenza della Corte d'Appello di Venezia, che respinge il ricorso presentato dalla madre, la quale - secondo il tribunale - "mostra a parole, ma non nei fatti una condivisione verso il principio della bigenitorialità". I giudici spiegano che la situazione "anziché migliorare si è ulteriormente aggravata" e che "l'attuazione del programma di incontri padre-figlio stenta ad attuarsi" a causa della scarsa collaborazione della madre "la quale continua a dettare le regole come fosse esclusiva custode del figlio del tutto incurante di un provvedimento che ha invero demandato l'affido del minore a un soggetto terzo".

Quanto al trasferimento a Roma, chiesto dalla madre, i giudici evidenziano che nulla è dato conoscere sulla "non meglio precisata" attività lavorativa che avrebbe permesso alla donna di avere una maggiore stabilità economica. E che "i prospettati problemi di salute", motivati dal clima troppo umido del Veneto, non sono idonei "a giustificare un tale spostamento".

Nel 2019 arriva la condanna per sottrazione del figlio

Resta il fatto che il bambino resta nella Capitale. I mesi passano veloci, il bimbo cresce, il papà è sempre più lontano. Il 28 novembre del 2019, la donna viene condannata a un anno e otto mesi dal tribunale di Treviso per sottrazione del figlio minore. Con lei vengono condannati a un anno e due mesi anche i genitori perché "consapevoli del contributo, quanto meno agevolatore, dato alla figlia in relazione alla commissione" del reato.

I giudici sottolineano che "nel corso degli ultimi anni" l'uomo ha potuto vedere il figlio "solo per brevi momenti" e "sotto la continua vigilanza degli imputati". Spiegano che il "comportamento adottato nei confronti dei carabinieri e dei servizi sociali e il disprezzo manifestato verso i provvedimenti dell'Autorità Giudiziaria", confermano "la assoluta determinazione dell'imputata nel voler mantenere un assoluto controllo sul figlio, con esclusione dell'intera famiglia paterna dalla vita del medesimo". Ed evidenziano che non c'è alcuna prova delle asserite (dalla donna) "mancanze dell'ex compagno" né del "carattere violento" dell'uomo le cui affermazioni sono state confermate da vari teste escussi in sede di dibattimento.

Finora però il bimbo è sempre rimasto con la madre. Possibile che le sentenze possano essere calpestate così facilmente? A quanto pare sì. "La madre continua a infischiarsene" racconta l'uomo a Today, "ma se aspetto il sistema italiano mio figlio diventa maggiorenne. Il danno affettivo è enorme".

La Corte dei diritti dell'uomo critica l'Italia per come è stato gestito il caso

In tutto, dal 2014 ad oggi, Stefano ha potuto passare con il figlio solo 126 ore. Preso dalla disperazione, dopo aver tentato ogni strada, ha scritto anche alla Cedu (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo) che a inizio del 2020, insperatamente, accoglie la sua domanda e chiede i primi chiarimenti alle autorità italiane. Si arriva così al 24 giugno del 2021, quanto la corte europea di Strasburgo deposita le motivazioni della sentenza con cui condanna lo Stato italiano per non aver "trovato una soluzione per consentire al padre di esercitare regolarmente il suo diritto di visita". "Le autorità di giustizia nazionali - si legge - non hanno adottato misure concrete e utili in grado di consentire l'instaurazione di un contatto effettivo tra padre e figlio"  e lo Stato ha tollerato che "per circa sette anni che la madre, con il suo comportamento, abbia impedito l'instaurazione di un vero rapporto tra il ricorrente e il bambino".

I giudici stigmatizzano poi "il ritardo con cui il tribunale di Venezia ha reso la sua decisione" e l'operato i dei servizi sociali di Roma a cui il bimbo era stato affidato negli ultimi anni, che "nonostante le decisioni giudiziarie" sono intervenuti con grande ritardo e "hanno organizzato una sola visita". Più in generale, la Corte condanna lo Stato italiano per le inadeguatezze giuridiche mostrate nel gestire la vicenda: "La posta in gioco per il ricorrente richiedeva misure urgenti, in quanto il passare del tempo avrebbe potuto avere conseguenze irreparabili sul rapporto tra il figlio e il padre, che non viveva con lui" si legge nella sentenza.

La versione delle autorità italiane e gli ultimi sviluppi del caso

Dal canto suo l'avvocatura dello Stato ha fatto presente alla Corte che se qualche ritardo c'è stato è dipeso dalla delicatezza della vicenda che ogni decisione è stato presa nell'interesse del bambino perché (si legge sempre nella sentenza) interrompere bruscamente ogni rapporto tra madre e figlio avrebbe costituito "per un bambino di età inferiore ai cinque anni, un trauma che non può essere inflitto all'unico scopo di garantire gli incontri con il padre".

Resta il fatto che la situazione non si è ancora sbloccata. Anzi. Secondo il padre, dopo che un nuovo decreto ha stabilito il trasferimento del bambino in una casa famiglia, "a febbraio c'è stato un intervento con il tutore e le forze di pubblica sicurezza", ma a casa non c'era nessuno. "Lei e i suoi genitori - denuncia il 43enne - si sono resi irreperibili per non applicare l'ultima decisione del giudice e non adempiere alle prescrizioni del tutore e dei servizi sociali". Finché "a inizio marzo il tribunale dei minori ha emesso un provvedimento di rintraccio". Al momento però non ci sarebbero novità. A Stefano restano solo delle sentenze rimaste lettera morta e la forza della sua disperazione. 

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