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Sabato, 20 Aprile 2024
La grande fuga

"Cambio vita" ma per cosa? Cosa c’è dietro il boom di dimissioni

Sono più di un milione gli italiani che lasciano ogni anno il proprio posto di lavoro, un fenomeno che si è allargato dopo la pandemia di Covid. Ma da cosa scappano gli italiani? Tutti i numeri dietro la retorica del "cambio vita"

La chiamano sempre più spesso, anche da noi, “Great Resignation”. Un termine che suona meglio di “dimissioni” e che riassume la sfida di migliaia di persone che decidono di abbandonare volontariamente il proprio posto di lavoro. Una tendenza diventata sostanziosa oltreoceano nel corso della pandemia, ma che, anche in Italia, è presente da anni. E non accenna a diminuire.

Secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero del Lavoro, sono oltre 1,6 milioni le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022: il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. L’anno prima, invece, sono stati ben 1 milione e 81 mila i lavoratori che hanno scelto di abbandonare il lavoro: un valore cresciuto del 13,8% rispetto al 2019, quando il dato si attestava a quota 950 mila. Ma da cosa deriva questo trend? E da cosa “scappano” i lavoratori?

L'identikit di chi lascia il lavoro

Per rispondere a questa domanda sono state ipotizzate molte spiegazioni: la ricerca di un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro, il bisogno di dare spazio alla propria creatività, la fine dei paradigmi lavorativi novecenteschi e via dicendo. Teorie e suggestioni sicuramente interessanti, ma per rimanere al “qui ed ora” è forse meglio mettere meglio a fuoco di cosa stiamo parlando. Uno studio della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, relativo al 2021 ci fornisce un quadro sicuramente più dettagliato del fenomeno.

Quando parliamo di “grandi dimissioni” parliamo infatti prevalentemente di una situazione che riguarda in particolare i lavoratori giovani: più del 40% degli interessati aveva nel 2021 meno di 35 anni, mentre quasi il 75% non era in possesso di una laurea. Ma non solo: il 56,4% delle dimissioni sono avvenute al Nord contro l’appena il 19,9% del Centro e il 23% del Sud. Un’altra variabile fondamentale è poi il tipo di contratto al quale si rinuncia. Il 52.9% di chi ha lasciato il lavoro aveva un contratto di lavoro temporaneo, un terzo di tempo parziale.

La maggior parte era impiegata in attività manifatturiere (18,7%), nelle costruzioni (9%), nel commercio all’ingrosso al dettaglio (13,4%), nella ristorazione (12,4%) e nella logistica (7%). Parliamo quindi di migliaia di operai non specializzati ed edili, operatori di telemarketing, stagionali della ristorazione e fattorini. In prevalenza siamo in presenza di giovani con contratti di lavoro precari (tempo determinato) o parziali (ovvero part time), le cui retribuzioni, come vedremo, sono spesso funzionali alla sola sussistenza. Un’immagine piuttosto diversa da quella stereotipata del professionista che molla tutto per rimettersi in gioco o scrivere un blog di viaggio.

Il nodo del lavoro povero e del lavoro femminile 

Un fantasma si aggira per l’Italia: quello del lavoro che non basta per arrivare a fine mese. A certificarlo sono gli ultimi dati Inps sulle retribuzioni degli italiani. Come abbiamo visto la maggior parte di chi dà le dimissioni è costituito da chi ha un contratto a tempo determinato e non è un caso. La retribuzione lorda media di un dipendente a tempo determinato è di circa 9.634 euro all’anno, quella di uno stagionale di 6425 euro, contro i 26.285 di chi ha un contratto a tempo indeterminato. Precarietà significa automaticamente quindi più povertà, ma non è la sola caratteristica che tende a tenere bassi i salari. L’altro si chiama tempo parziale e part-time involontario, ovvero non scelto autonomamente dai lavoratori, ma dalle aziende. Una prerogativa che tiene sulla soglia della povertà lavorativa (e spesso al di sotto) molti lavoratori, come si può intuire dal grafico sotto. 

Dati impietosi che dimostrano che più del 16% dei dipendenti italiani guadagna meno di 5000 euro netti l’anno, mentre quasi il 40% ha un imponibile Inps che non supera i 15mila. Una percentuale che si abbassa drasticamente se si guarda ai dati relativi agli impiegati full time, ma che rimane sostanziosa e che interessa milioni di lavoratori in Italia.

Un quadro che si fa ancora più preoccupante se si guarda alle differenze di genere. Le donne guadagnano ancora molto meno degli uomini. Se la retribuzione media globale annua (considerando tutti i lavoratori, anche chi ha lavorato un solo giorno all’anno) in Italia è di 21.868 euro, la cifra guadagnata dalla componente maschile (25.224 euro) non è minimamente in linea con quanto guadagnato dalle donne (17.316). Una dinamica su cui incide anche un lavoro frammentato, spesso scelto per conciliare lavoro o famiglia.

Già perché il lavoro part-time, spesso non voluto, interessa soprattutto il genere femminile. Nel 2021 sono state 3.413.268 le donne a svolgere uno o più lavori a tempo parziale, contro 1.998.347 di maschi. Nel 2021 circa il 21% dei lavoratori ha avuto almeno un rapporto di lavoro a tempo parziale mentre tra le lavoratrici con almeno un part time nell’anno è pari a circa il 50%.

Ma il gap interessa anche i giovani: la media salariale annua dei lavoratori compresi fra i 55 e i 59 anni in Italia è di 28.233 euro contro le 18.715 di chi ha un’età compresa tra i 30 e i 34 anni e i 9918 euro di chi ha un’età compresa fra 20 e 24 anni. Dinamiche su cui, al netto degli scatti di carriera, incidono le minori ore lavorate, segno che la precarietà è ancora un problema che mina ancora la vita e il futuro delle giovani generazioni.

Il gap salariale fra Italia ed Europa 

Un dettaglio che sfugge frequentemente alle analisi sulle dimissioni nel nostro Paese o alle polemiche sulla carenza di personale in settori quali la ristorazione è che viviamo in un mondo e in un Continente sempre più mobile. La hanno chiamata negli anni “Grande Diaspora”: meno prosaicamente è la fuga dei molti connazionali che scelgono altri paesi per studiare e soprattutto per lavorare o costruire una famiglia. A tenere i fili di questa contabilità è da anni la Fondazione Migrantes che sottolinea come nel tempo l’Italia sia tornata ad essere una terra da cui si emigra. 

I salari sono il problema dell'Italia (anche secondo l'Ue)

Al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’AIRE, il registro degli italiani residenti stabilmente all’estero,  erano 5.806.068, il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia. Ma le regioni da cui si emigra e le destinazioni differiscono dalle dinamiche novecentesche. Il 78,6% di chi ha lasciato l’Italia per espatrio nel corso del 2021 è andato in Europa, mentre il 53,7% (poco più di 45 mila) di chi ha lasciato l’Italia alla volta dell’estero per espatrio nell’ultimo anno lo ha fatto partendo dal Nord Italia. La stessa area geografica dove si registra il tasso più alto di dimissioni volontarie. Una dinamica che sembra fortemente correlata agli stipendi italiani https://www.today.it/economia/stipendio-medio-italia.html ) e al tipo di lavoro che si registra più frequentemente, tra i più precari e discontinui dell’Eurozona. A sottolinearlo c’è uno studio della Fondazione Di Vittorio basato su dati Eurostat che ha analizzato gli stipendi medi lordi per un full time nelle tre grandi economie dell’area euro. 

Come si intuisce facilmente dal grafico sopra gli stipendi medi italiani, nel caso ottimale di un full time a tempo indeterminato differiscono di molto da quelli degli altri paesi dell’Unione come Francia e Germania, da anni meta di immigrazione dei nostri connazionali e fanno registrare uno scarto di 7 mila euro se paragonati alla media europea. Del resto, come ricorda OpenPolis, le retribuzione italiane sono le uniche ad aver fatto registrare una flessione rispetto al 1990, mentre quelli francesi e tedeschi sono aumentati di oltre il 30%. Ma l’altra dinamica a cui prestare attenzione è alla tipologia di lavoro che caratterizza il nostro Paese rispetto ai vicini.

In Italia i contratti a tempo determinato sono superiori a quelli dell’Eurozona e soprattutto abbondano i part-time involontari. Come abbiamo già visto sono le tipologie contrattuali retribuite di meno, che fanno sì che il lavoratore sia costantemente vicino alla soglia di povertà relativa: sono le condizioni in cui si registrano il maggior numero di dimissioni volontarie.

Quando a dimettersi sono i laureati 

Qualche giorno fa ha avuto molto risalto sulla stampa nazionale il video della giovane laureata che si lamentava dello stipendio che le era stato proposto: appena 750 euro a tempo pieno per lavorare in uno studio ingegneristico. Le dinamiche salariali sono del resto difficili anche per molti laureati in Italia e il gap che separa lo Stivale dall’estero è evidente nei dati forniti annualmente da Almalaurea.

Il gap tra uno stipendio di un laureato all’estero è di quasi mille euro tra Sud Italia ed estero, per entrambe le classi di laurea, più ridotto al Nord, ma sicuramente non competitivo con quello di altri Paesi anche molto vicini. Una dinamica che è probabilmente correlata con l’aumento delle dimissioni da parte dei laureati che, malgrado sia bassa rispetto a quella dei cittadini con qualifiche più basse, ha fatto registrare un sostanziale incremento nel 2021 (+17,7% contro il 12,9% di chi ha un diploma di istruzione secondaria superiore e il 13,3% un titolo inferiore). I laureati che si dimettono sono in cerca spesso di migliori salari e faticano meno (a differenza di altre categorie) a trovare nuove occupazioni, anche nello Stivale.

Ma come ricorda la Fondazione Di Vittorio, l’Italia rimane un paese non adatto a lavoratori qualificati: solo il 13,9% degli occupati è impiegato in professioni intellettuali e scientifiche contro 21,3% dell’eurozona, i lavoratori non qualificati ammontano invece al 13% della forza lavoro totale contro il 9% dell’area euro. Una dinamica che si riflette anche sul tasso di occupazione dei laureati, minore rispetto all’area UE soprattutto nel Centro e nel Sud Italia, soprattutto per quanto riguarda il tasso di occupazione delle laureate. La fotografia di un Paese che sembra aver scommesso da anni sull’abbassamento del costo del lavoro piuttosto che sull’aumento della produttività e che spende milioni di euro in formazione di cui usufruiranno gli altri. Una mancanza di prospettiva da cui molti fuggono abbandonando un lavoro che sembra sempre più lontano da quell’attività che, come ricorda la Costituzione, dovrebbe “concorrere al progresso materiale o spirituale della società”.

Fuga dal lavoro: perché (anche in Italia) molti lavoratori si stanno licenziando

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