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Sabato, 20 Aprile 2024
I dati

Perché nessun Superbonus o Family day può riempire le culle

Nel 2022 il numero dei nuovi nati ha toccato il minimo storico, mentre da anni il numero dei giovani non riesce a supplire l’incremento della popolazione anziana. Pochi ricordano che 3 nuovi nati su 10 sono a rischio povertà e che l’esempio di altri Paesi europei ci suggerisce che il fenomeno possa essere originato da dinamiche che non hanno nulla a che fare con le istanze dei difensori della “famiglia tradizionale”

Mai così pochi nati dall’Unità d’Italia. È il tempo dei paradossi per il governo di “destra- centro” che, dopo il boom degli sbarchi, si trova a gestire anche il picco di un inverno demografico che, dal 2008, non accenna ad attenuarsi. A dispetto di “Family Day” ed elogi delle “famiglie tradizionali”, l’evidenza è che gli italiani sono tra quelli che in Europa e in Occidente fanno meno figli. Una dinamica apparentemente irreversibile che ha portato all’inaspettata proposta del ministro dell’Economia Giorgetti: uno sgravio fiscale sostanzioso, sull’esempio del bonus 110%, per chi decide di mettere al mondo nuovi nati. L’estremo tentativo di invertire, per decreto, una dinamica che parte da lontano e che ha cause strutturali profonde. 

Il legame tra lavoro femminile e natalità 

Per rendersi conto della peculiarità italiana basta osservare una mappa. Quella sotto è relativa ai dati del tasso di fertilità per donna in Europa. Come si nota la denatalità è una caratteristica italiana, ma allargando lo sguardo, possiamo dire che è una prerogativa di tutto il Sud Europa. In Grecia, Italia e Spagna si fanno genericamente meno figli che al Nord e le ragioni vanno cercate non solo nella demografia, ma anche in ciò che a livello politico e sociale separa le due parti dell’Unione.

In Italia, come ricorda uno speciale di Skytg24, ci sono sicuramente delle caratteristiche demografiche che frenano le nascite come l’età media delle madri alla nascita del primo figlio (una media di 31,6 anni contro una europea di 29,5) e la carenza di donne in età fertile rispetto ad altre nazioni europee. Ma, ammettendo che non c’è nessun obbligo o virtù nel mettere al mondo una nuova vita, e che oggi è fortunatamente una scelta che ognuno può vivere senza condizionamenti, la domanda è una: a cosa va incontro chi decide di provare ad allargare il nucleo familiare? La prima evidenza è che, in maniera molto più marcata rispetto alle altre nazioni europee, rischierà di mettere al mondo un bambino povero.

In Italia la media dei minori a rischio povertà ed esclusione sociale è nettamente superiore a quella della media UE. Così come lo è per tutti quegli stati del Sud Europa dove il tasso di natalità si è abbassato negli anni.

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È legittimo che, se più di un terzo dei nuovi nati sono a rischio povertà, le famiglie italiane, greche o spagnole ci pensino due volte prima di mettere al mondo un figlio. Un ragionamento che diventa esponenziale all’aumento dei componenti della famiglia. E se molti difensori della “famiglia tradizionale” attribuiscono il calo della natalità alla maggiore presenza di donne nel mercato del lavoro e alla loro maggiore emancipazione, i dati Eurostat ci raccontano esattamente l’opposto.

Dove l’occupazione femminile è più alta il tasso di natalità va verso l’alto e la povertà minorile è molto meno frequente. Lo storico ritardo italiano, con appena il 55% delle donne occupate, spesso con una retribuzione inferiore a quella degli uomini, sembra essere uno dei fattori chiave nella scelta di mettere al mondo o meno un figlio, con buona pace dei “Family o Fertility day” nostrani. Ma chi è occupato che tipo di lavoro svolge? Il salario è sufficiente a sostenere una famiglia?

La trappola del Part-time

Che in Italia ci sia un problema salariale è cosa nota. L’evidenza è che il l 16% dei dipendenti italiani guadagna meno di 5000 euro netti l’anno, mentre quasi il 40% ha un imponibile Inps che non supera i 15mila.

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Gran parte delle persone che guadagnano meno lavorano con contratti part-time o a tempo determinato sono donne e giovani. Non è certo una prerogativa italiana, ma da noi c’è una differenza sostanziale.

Sì, perché se il part-time è una modalità applicata soprattutto al lavoro femminile in tutta Europa, lo scenario cambia se si guarda al part-time volontario o involontario. Tradotto: il part-time è uno strumento che può essere usato per conciliare le esigenze lavorative con quelle familiari o per pagare meno i dipendenti. È indubbio che, almeno nel caso dell’Italia, in assenza di un intervento regolatore forte dello Stato, il part-time sia uno strumento utilizzato essenzialmente per pagare meno i dipendenti. Ancora una volta i Paesi che presentano i tassi più bassi di natalità in Europa, ovvero Italia, Spagna e Grecia, presentano i tassi di part-time involontario più alti del Continente. Più del doppio delle donne italiane lamentano di lavorare, contro la propria volontà, a tempo parziale rispetto alle francesi o alle svedesi, mentre la quota di part-time involontario femminile in Italia è quasi il triplo della media Euro. Analogo discorso può essere fatto per gli uomini. Variabili che mettono in difficoltà le famiglie italiane costrette a sostenere spesso spese non sempre sostenibili.

Se il Welfare non aiuta le famiglie

E se il lavoro è un ostacolo spesso insormontabile, il punto è che anche frequentare un asilo in Italia è spesso complicato. Come sottolinea Open-Polis sono in media 27,2 ogni 100 i posti disponibili nei nidi e nei servizi di prima infanzia in Italia, un dato che ci allontana dall’obiettivo del 33% europeo per i bambini tra gli 0 e 3 anni e del 90% per quelli tra i 3 e i 5 anni.

E la media italiana di bambini (al di sotto dei 3 anni) che frequentano asili nido è ancora una volta inferiore a quella della UE. L’assistenza e la cura sembra essere ancora sulle spalle delle madri che lavorano, in media, di meno delle altre donne europee e sono sottoposte a un part-time spesso involontario. Il dato che incuriosisce è in questo caso quello della Germania che ha da tempo un problema con gli asili nido, ma che sembra avere anche una rete di assistenza e protezione sociale per i genitori non paragonabile con quella italiana. Ne è un esempio la percentuale di part-time involontario che proprio in Germania fa registrare le percentuali inferiori di tutto il Continente, anche se non mancano le tensioni e le polemiche su un sistema che sembra spesso penalizzare le donne. 

In Italia gran parte del PNRR dovrebbe essere dedicato alla soluzione di questo problema: il piano prevede infatti lo stanziamento di circa 4 miliardi di euro per la costruzione di asili nido e scuole per l’infanzia, ma resta da vedere come verranno utilizzati praticamente i soldi della UE.

C’è poi il nodo della percentuale di PIL che gli Stati riservano alla cura delle famiglie e dei nuovi nati. Ancora una volta l’Italia è nel fanalino di coda in Europa, in compagnia di Spagna e Grecia.

Quello che però sembra opportuno sottolineare è che all’estero gli interventi in favore delle famiglie non sembrano effettuati solamente mediante misure tipo “super-bonus” promosso da Giorgetti. Per avere un’idea è sufficiente guardare oltralpe, dove la crescita demografica è sostenuta da tutta una serie di interventi funzionali a sostenere le donne e i futuri genitori come la possibilità di lavorare a tempo parziale nei primi anni di vita dei figli (con integrazioni salariali da parte dello stato), il tempo pieno a scuola, la ricerca di soluzioni abitative favorevoli alle famiglie, oltre ovviamente alle laute agevolazioni economiche e fiscali.

L’obiettivo non è realizzare la nuova “guerra del grano” insomma, ma mettere in condizione chi sceglie liberamente di mettere al mondo un figlio di farlo serenamente, senza pentimenti e con una rete economica e sociale in grado di supportare questa scelta. Potrebbe essere una consapevolezza utile sulla quale cominciare a lavorare. Almeno fino al prossimo “Family Day”.

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