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Martedì, 23 Aprile 2024
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Coronavirus, la storia di Claudia: l'infermiera che cantava ai pazienti

Il racconto di una infermiera di 30 anni, in servizio all'ospedale di Castellammare di Stabia (Napoli): ''Ho cantato ai pazienti a cui non potevo stringere la mano''

Come abbiamo potuto constatare dall'inizio dell'emergenza coronavirus, i pazienti colpiti mostrano sintomi e reazioni diverse tra loro, da chi accusa un po' di tosse e qualche linea di febbre, fino a chi finisce in terapia intensiva, a lottare tra la vita e la morte. Ma uno degli aspetti più tristi, che riguarda tutti i pazienti ricoverati, è l'impossibilità di vedere i propri cari e di avere ogni tipo di contatto fisico, anche con il personale sanitario. Dalle videochiamate ai parenti fino ai camici con i nomi o con le foto, medici e infermieri in questi mesi hanno fatto di tutto per cercare di allietare, per quanto fosse possibile, il tempo dei pazienti Covid.

Tra questi “angeli della corsia” c'è anche Claudia Irto, infermiera di 30 anni in servizio all'ospedale di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, che per confortare le persone ricoverate, e a cui non poteva stringere la mano, ha deciso di cantare le loro canzoni preferite. Un modo per far sentire la sua vicinanza, anche nei momenti più difficili: da 'New York, New York' per la paziente anziana che chiede continuamente attenzione, rimasta in Pronto soccorso 10 giorni in attesa di un posto in una struttura Covid, fino a 'Mamma son tanto felice', intonata per un giovane con la maschera per l'ossigeno, peggiorato e deceduto improvvisamente in poche ore. 

Coronavirus, l'infermiera che cantava ai pazienti

 "Ora non riesco più a sentire quella canzone senza piangere": ha raccontato Claudia, spiegando come ogni eventuale contatto, come una semplice stretta di mano, prevedesse il cambio dei dispositivi di protezione che, come sappiamo bene, sono contati.

"La prima settimana dell'emergenza abbiamo lavorato senza protezioni adeguate - prosegue Claudia - ma fortunatamente poi sono arrivate e abbiamo potuto lavorare con più serenità, seppure con maggiore fatica, perché portare i dispositivi "è dura. E' faticoso fisicamente, la pelle si secca, si irrita e non è possibile andare in bagno per ore, per evitare di contaminare i dispositivi di protezione". 

Eppure "il mio lavoro mi piace. Quello che stiamo facendo oggi lo facciamo ogni giorno, anche in momenti meno drammatici, con la stessa dedizione. E mi disturba, se devo essere sincera, sentire ora le persone che ci chiamano 'eroi'. Mi dispiace che abbiamo dovuto attraversare una tragedia perché ci si accorgesse del nostro lavoro", aggiunge Claudia.

Coronavirus, il racconto di Claudia: ''Per i pazienti siamo l'unico contatto"

"Ho la consapevolezza che il mio lavoro comporta dei rischi - continua - oggi più elevati, ma comunque presenti anche in tempi normali. E un rischio che mi assumo. Ma ovviamente non posso farlo assumere alla mia famiglia, nel mio caso i miei genitori, mia sorella e mio nonno. Per questo, come hanno fatto tutti i miei colleghi, dall'inizio dell'emergenza sono andata a vivere con una mia collega. Lei ha lasciato i suoi tre figli per questo periodo. Ma è un sacrificio necessario". Nonostante le precauzioni nel suo Pronto soccorso si sono infettati, oltre a due medici poi ricoverati, tre infermieri "senza gravi conseguenze per fortuna. Ma questo ha sicuramente aumentato il carico emotivo", dice Claudia che, comunque, riesce a vedere anche dei lati positivi, dal punto di vista professionale, in questa drammatica emergenza.

"Il lavoro in Pronto soccorso - ricorda l'infermiera - è sempre emotivamente coinvolgente e molto faticoso. La nostra struttura è la più grande tra Napoli e Salerno. In tempi normali abbiamo anche 300 accessi al giorno. E si va sempre di fretta per riuscire a seguire tutti. Il tempo è sempre limitatissimo. Con l'emergenza coronavirus abbiamo dovuto riorganizzare gli spazi. Utilizzare persino la cucina per approntare dei posti in più. Ma il numero dei pazienti è stato ovviamente minore. Gli spazi 'no Covid' praticamente sempre vuoti. Una condizione che ci ha permesso di dedicarci personalmente di più a ciascuno dei pazienti, spesso costretto a rimanere alcuni giorni in Pronto soccorso in attesa di un letto in strutture Covid".

Più tempo per l'assistenza alla persona, con la sua paura e la sua solitudine. "Siamo stati e siamo l'unica possibilità di contatto dei pazienti Covid con le famiglie - osserva - Gli unici a poter loro comprare una bottiglia d'acqua. Gli unici, nei casi peggiori, a poterli confortare e anche a versare le prime lacrime quando abbiamo assistito all'aggravamento improvviso e fatale della malattia".

Tra le pazienti rimaste nel cuore di Clauda c'è senza dubbio un'anziana proveniente da una Rsa, e che per fortuna adesso sta bene, a cui cantava la celebre 'New York, New York':  "Non è rimasta solo nel mio cuore. Anche i miei colleghi l'avevano adottata: le hanno anche regalato una bambola". E poi c'è l'uomo con cui ha cantato insieme 'Mamma son tanto felice' solo poco prima che si aggravasse. "Abbiamo dovuto avvertire sua moglie, che non lo avrebbe più rivisto e che, come è accaduto purtroppo ad altri, non avrebbe potuto nemmeno fare il funerale. E' una tristezza difficile da cancellare".

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