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Martedì, 23 Aprile 2024
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Lo shopping low cost sta distruggendo l'ambiente ma ora potrebbe cambiare tutto

Prodotti a basso costo e esiguo tasso di riciclo degli indumenti hanno portato l'industria tessile a rendesi "colpevole" del 10% delle emissioni di gas serra e del 20% dello spreco mondiale di acqua. Ma una nuova tecnica elaborata da un’università americana potrebbe però cambiare presto le cose

L’industria tessile è uno dei settori più inquinanti al mondo. L’enorme mole di vestiti prodotti e venduti a basso costo dalle grandi multinazionali del settore, congiuntamente alla scarsa possibilità di riciclo degli indumenti, fanno di questo settore una vera e propria “bomba ambientale”.

I numeri del Fast Fashion e perché è una minaccia per il pianeta

Nei paesi anglosassoni è stata ribattezzata “Fast Fashion”, un qualcosa che ricorda il più familiare “Fast Food”. È la moda veloce e a basso costo promossa dalle grandi multinazionali del tessile, una dinamica che ha rivoluzionato i nostri armadi. Si pensi che, solo negli Stati Uniti negli anni ‘60 si acquistavano mediamente 15 indumenti all’anno. Oggi la media è di più di settanta, una percentuale molto simile anche da noi. Un “miracolo” reso possibile dalla delocalizzazione delle produzioni che, giocando sull’abbassamento del costo del lavoro, ha permesso di produrre una quantità nettamente maggiore di prodotti economici che si sono riversati sui nostri mercati. Una dinamica che, oltre ai quelli sociali, ha anche un costo ambientale enorme: questa industria è responsabile dell’emissione del 10% delle emissioni di gas serra ogni anno e del 20% dello spreco mondiale di acqua. E, secondo recenti studi, le emissioni sono destinate a salire del 50% entro il 2030.

L’idea: un nuovo tipo di tessuto per favorire il riciclo

Il punto è che, rispetto ad altri settori, l’economia circolare nel settore della moda non funziona. Solo il 12% degli scarti del settore vengono riciclati. Il problema? È molto difficile (e troppo dispendioso) capire di cosa sono composti i materiali da riciclare. Almeno fino a oggi. Uno studio dell’Università del Minnesota promette di rivoluzionare questa premessa. L’obiettivo è quello di creare delle etichette realizzate con fibre a cristalli fotonici, un tipo di fibra ottica che rappresenta l’analogo ottico dei microconduttori nell’elettronica.

“È come un codice a barre che andiamo a scrivere sul tessuto dell’indumento” dichiara Max Shtein dell’Università del Michigan, autore dello studio “Siamo riusciti a personalizzare le proprietà fotoniche delle fibre in modo da renderle visibile all’occhio umano, leggerle attraverso una luce a infrarossi e una serie di altre combinazioni.” Semplificando estremamente, il sistema usato per identificare tessuti da avviare al riciclo, è composto da fibre polimeriche ricoperte di vetro, che possono essere intrecciate in un tessuto. Queste fibre, incorporate nei comuni indumenti, diventano così dei veri e propri indicatori univoci che ci danno informazioni esatte sul tipo di tessuto di cui sono composti, sfruttando i processi di rifrazione della luce. In futuro, secondo gli autori della ricerca, queste informazioni potranno essere carpite anche attraverso uno smartphone anche dai comuni consumatori.

“Per un reale processo di riciclo è importante conoscere la precisa composizione di un tessuto, un’azienda che ricicla cotone non pagherà mai per un indumento che è composto per il 70% da fibre sintetiche, gli attuali sensori ottici non possono al momento provvedere a quel livello di precisione per individuare i materiali, ma il sistema che abbiamo inventato sì” afferma Brian Iezzi, uno degli scienziati autori della ricerca e aggiunge: "Le fibre a cristalli fotonici costituiranno solo una piccola percentuale, appena l'1% di un indumento finito. Ciò potrebbe aumentare il costo del prodotto di circa 25 centesimi, simile a quello delle etichette che utilizziamo ora". Un prezzo tutto sommato marginale paragonato ai vantaggi economici e ambientali che questa nuova tecnica potrebbe comportare.

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