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Sabato, 20 Aprile 2024
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No, noi non dimentichiamo Federico Aldrovandi

Sono passati 15 anni. La madre Patrizia twitta alle 6.04, l'ora esatta in cui scesero le tenebre su Ferrara il 25 settembre 2005: "Non dimenticatelo". Il suo ricordo non muore mai, oggi gli viene intitolato un parco pubblico. La giustizia ha fatto il suo corso nonostante tutti gli ostacoli. Il padre: "Quello che non mi darà mai pace sono le sue urla"

"Non dimenticate Federico Aldrovandi": il tweet della madre, Patrizia Moretti, arriva pochi minuti dopo le 6 del mattino, un'ora prima di un'alba carica di nuvole. Le 6.04. Quelle maledette 6.04.

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Oggi è il quindicesimo anniversario della sua morte. Il 18enne morì a Ferrara durante un controllo della polizia. La battaglia dei suoi genitori per avere giustizia è stata lunga e ostinata, irta di ostacoli indegni in un Paese civile.

Federico Aldrovandi, 15 anni dopo

Un lungo post di Lino Aldrovandi, il padre, ricorda chi era Federico, nato a Ferrara il 17 luglio 1987, che "terminò forzatamente la sua breve vita ad appena diciotto anni, alle ore 06:04 di un assurdo 25 settembre 2005, sull’asfalto grigio e freddo di via Ippodromo, di fronte all’entrata dell’ippodromo, in Ferrara,  in un luogo forse troppo silenzioso, ucciso senza una ragione all’alba di una domenica mattina da 4 persone con una divisa addosso".

Lo scontro tra Aldrovandi e i quattro poliziotti portò alla morte per "asfissia da posizione": il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Monica Segatto, Paolo Forlani, Luca Pollastri ed Enzo Pontani sono stati condannati definitivamente per eccesso colposo in omicidio colposo a tre anni e sei mesi (pena poi ridotta con l'indulto). Lo "uccisero senza una ragione", come disse il giudice. Gli agenti sono ancora in servizio. All'inchiesta per stabilire la cause della morte ne sono seguite altre per presunti depistaggi e per le querele fra le parti.

"Il 25 settembre di ogni anno, giunta l’alba, si ripete quello che per me rimarrà per sempre un incubo, o peggio, il ricordo orribile dell’uccisione di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggergli la vita - scrive Lino - Quello che non mi darà mai pace sono le urla di Federico con quelle sue parole di basta e aiuto sentite anche a centinaia di metri, ma non da quegli agenti (atti processuali). Anzi, il quarto, quello proteso in piedi a telefonare col cellulare di un collega, mentre Federico è a terra bloccato, a tempestarlo di calci (testimonianza in incidente probatorio del 16 giugno 2006)".

"Un’immagine ai miei occhi di padre non diversa, anzi peggiore, considerandone gli autori di quel massacro (54 lesioni Federico aveva addosso, la distruzione dello scroto, buchi sulla testa e per finire il suo cuore compresso o colpito da un forte colpo gli si spezzò o meglio gli fu spezzato)  rispetto ad altri casi orribili in cui la violenza l’ha fatta da padrona. Perchè? Gli atti processuali dei tre ordini di giudizio portarono si alla condanna definitiva degli agenti (eccesso colposo in omicidio colposo con pena a 3 anni e 6 mesi, ridotta a 6 mesi per via dell’indulto), ma sono le parole “scritte dai giudici nei tre gradi di giudizio” che rimarranno lì come un macigno a rendere un poco di giustizia a “un ragazzo ucciso”, e che faranno sempre  la differenza, i cui risvolti avrebbero potuto avere un epilogo di pena ben più grave nei confronti dei responsabili di un omicidio tanto assurdo quanto ingiustificato". 

"Ricordiamocelo sempre - continua -  quando si abbia a parlare di questa orribile storia, per non correre il rischio di sminuire, annullare o resettare una verità che oltre a produrre inevitabilmente tanto dolore lacerante,  soprattutto in chi l’ha subita, ha comunque aperto una strada anche se difficile da percorrere, verso quei luoghi chiamati rispetto, dignità, civiltà, democrazia, legalità, umanità, partecipazione, impunità. Maggior ragione oggi non perdere di vista quelle mete. Non a caso, a volte penso volutamente, si rischia a tutti i livelli, di perdere la bussola del buon senso e della normalità. Non perdiamola".

Il ricordo di Federico Aldrovandi non muore mai

Oggi a Ospital Monacale, Comune di Argenta (Ferrara) a Federico viene intitolato un giardino pubblico. Un gesto di grande sensibilità. "L’idea di dare il nome di mio figlio ad un parco, sa di natura, di respiro, di vogllia di correrci dentro a perdifiato. E solo i bimbi lo possono fare senza mai fermarsi, quello di correre a perdifiato, come faceva Federico" continua Lino Aldrovandi.

A Ferrara attenzione ce n'è forse un po' meno, purtroppo. Qualche giorno fa un cassonetto dei rifiuti nascondeva la targa che ricorda l’omicidio. Una svista, è stato posto rimedio dopo poche ore. Alle 11 di venerdì 25 settembre, mentre scriviamo, nessun accenno al quindicesimo annniversario della morte di Federico Aldrovandi si legge sul sito o sulla pagina Facebook del Comune di Ferrara. Nessun accenno nemmeno da parte del sindaco leghista Alan Fabbri. 

Ma no, noi invece non dimentichiamo Federico Aldrovandi, Patrizia. Era solo un ragazzo, aveva tutta la vita davanti e aveva appena salutato gli amici in una via vicino, per tornare a piedi a casa dopo aver trascorso la serata al Link di Bologna. Nei pressi di via Ippodromo a Ferrara procedeva, in quegli stessi minuti, la pattuglia "Alfa 3". Scenderanno le tenebre su Ferrara pochi minuti dopo. La testimone oculare coraggiosa Anne Marie Tsagueu assiste alla scena, e racconterà tutto agli organi preposti. Riportiamo testualmente: "Tutti si siedono, si mettono... si appoggiano proprio su di lui che... perché dopo questo movimento, che si siede la ragazza, lui non si muove più". Gli agenti dissero che Federico era difficile da contenere, finirono per ucciderlo.

Quanti ostacoli e quanto disprezzo lungo la strada della verità

C'è un momento, in tutti questi anni, che resta impresso nella memoria di chi scrive. Era il 27 marzo 2013. Alcuni agenti di polizia del sindacato Coisp  andarono sotto l'ufficio di Patrizia Moretti a protestare: una manifestazione di solidarietà ai colleghi condannati.  Lei, dipendente pubblica, scese le scale del Comune, arrivò in piazza e mostrò la foto del figlio ucciso. "Non avrei voluto farlo - disse poi - perché a me costa moltissimo, ma sono scesa con alcune mie amiche e colleghe e ho mostrato prima alla piazza, poi a loro la foto di Federico. Nessuno di loro mi ha guardata e dopo un po' sono andati via. E' stato triste, e doloroso".  "Non sapevamo che lavorasse in Comune" dissero poi con una discreta faccia tosta dal Coisp. Ma come dimenticare anche i cinque minuti di applausi per tre dei quattro agenti condannati, con tanto di delegati in piedi, nel 2014, a Rimini, in occasione del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di Polizia? No, non dimentichiamo neanche questo. 

Sei anni fa Patrizia Moretti ha deciso di chiudere l’account Facebook su cui per anni aveva portato avanti la sua lunga battaglia fino alla verità. "Perché tutto è già stato detto. Le sentenze sono definitive. Chi vuol capire ha capito. Agli altri addio. Io torno a essere mamma privata". Lei e il padre Lino furono avvisati della morte di Federico soltanto cinque ore dopo il decesso, quel 25 settembre 2005. Da quel giorno hanno dovuto ricorrere a tutta la loro forza per chiedere giustizia per quel figlio, sul cui giovane corpo martoriato vennero riscontrate 54 lesioni, buchi sulla testa, la distruzione dello scroto. E quelle urla di "Basta, aiuto" udite a centinaia di metri di distanza. No, non dimentichiamo niente Aldro.

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