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Giovedì, 25 Aprile 2024
storie di mamme

“Mia madre in una Rsa, a volte mi riconosce e accarezza il telefono. Senza di lei, nessuna Festa”

Figli di mamme ricoverate in residenze sanitarie assistenziali raccontano il dramma degli ultimi quattordici mesi segnati dall’assenza di carezze, di abbracci, di conforto. Perché, spiegano: “Un mondo che non rispetta le persone anziane non ha futuro”

La voce dei parenti delle persone ricoverate nelle Rsa rimbomba in un appello corale nella vigilia della Festa della mamma 2021. La richiesta è una sola, tanto chiara nella logica dei sentimenti che gridano comprensione, quanto forte, acuta nella pretesa di un diritto ancora prevalentemente negato: quella di poter rivedere i propri cari in presenza e in sicurezza dopo più di un anno.

Pareti di plexiglass, stanze degli abbracci, videochiamate, interfono sono serviti, sì, ma ora tutti ne hanno abbastanza. Non esistono più mezzi capaci di sostituire braccia che stringono corpi, non c’è più nulla che rimpiazzi una carezza, il contatto di una fronte contro un’altra, l’alito di un sussurro che sfiora l’orecchio mentre le parole “ti voglio bene” arrivano dentro. La distanza è stata forte, devastante per chi ha dovuto subirla. E per cercare di capire quanto, abbiamo contattato tre figli di mamme anziane, ricordate in occasione di una ricorrenza che le vorrebbe celebrate come meritano. Attraverso le storie di Dario Francolino, Antonio Burattini e Desiree Pantaleoni si può avere la lontana percezione di cosa significhi vivere per quattordici mesi senza potersi permettere di dare e ricevere un bacio dalle persone che si amano di più al mondo; dalle loro parole, scaturisce tutta la sofferenza per un tempo colmo di mancanza, di nostalgia, di ricordi a cui aggrapparsi per rievocare momenti di serenità.  

La nuova ordinanza di Speranza che riapre le visite agli anziani nelle Rsa

“Quel giorno che ho violato il protocollo”

Dario Francolino è il presidente dell'Orsan-Open Rsa Now, comitato di famigliari dei degenti nelle residenze sanitarie assistenziali. La sua lotta tenace per la riapertura delle strutture senza distanziamento e barriere, senza incontri con tempi contingentati e visite e uscite a discrezione delle direzioni sanitarie, si era fatta sempre più forte nelle ultime settimane, condivisa con le decine e decine di persone che si trovano nella stessa situazione e con i cittadini che ne supportano l’urgenza. A Today Francolino ha raccontato la sua storia personale, quella di figlio di Pina, ex insegnante elementare affetta da una grave forma di Alzheimer, ricoverata nella Rsa San Francesco, a Nova Milanese, dal 2017.

“Mia madre ha 81 anni, ma pensa di averne 77, si è bloccata su quest’età”, ci spiega: “Dai primi giorni di marzo 2020 non sono riuscito più a vederla in presenza fino al 22 febbraio 2021, quando si è rotta il femore. Quel giorno ho raggiunto l’ospedale in cui la stavano trasferendo e mi sono fatto trovare lì e violando il protocollo sono entrato con la mascherina, ma senza tampone, dopo essere stato bloccato da due infermieri. Un terzo mi ha fatto passare, in lui ha prevalso la compassione. Le sono stato accanto, le ho tenuto la mano in quelli che potevano sembrare gli ultimi istanti di vita prima che entrasse in sala operatoria. Sono stati momenti traumatici”.

“In Italia una persona con l’Alzheimer non ha diritto a un’assistenza particolare”, osserva: “A parte i momenti in cui c’ero io, per tutti mia madre era una paziente come tanti. Ma mia madre non era una paziente come tanti, non sapeva perché si trovava lì, che cosa le fosse successo. Lei ormai ha la memoria di un pesce rosso, tutto ciò che le viene detto, dopo tre secondi lo cancella, ma ha una forte memoria a lungo termine, anche se confonde le situazioni e crede che i suoi genitori siano vivi, che sono cattivi perché non vanno a trovarla. Io sono uno dei pochi che riconosce, sa che sono suo figlio, perché tra noi c’è sempre stato un rapporto molto forte, simbiotico”. Rivedere la sua mamma dopo tanto tempo è stato drammatico: “Ero felice e insieme terrorizzato perché pensavo che stesse morendo”, confida: “Pensi, ero felice che si fosse rotto il femore così potevo riabbracciarla… Una situazione paradossale: lei lottava per vivere, perché rompersi un femore a quell’età può essere fatale, e io ero là che l’abbracciavo, sentivo il suo calore, incrociavo il suo sguardo. E anche lei in qualche modo gioiva di quella situazione, nonostante il dolore che non passava. Mi sento un privilegiato per aver rotto l’isolamento”. Prima di quel giorno, mamma e figlio avevano potuto vedersi solo con le videochiamate, assistiti dagli operatori: “Loro sono stati fantastici, l’hanno accudita e accarezzata in tutti quei mesi. Ma mancava la privacy, c’era la difficoltà di esprimersi, perché mamma parla solo se stimolata. Io, per la disperazione, sono diventato una sorta di comico… Durante quei minuti le dicevo le cose più stupide che mi venivano in mente per vederla sorridere. Anche perché chiederle ‘come va? Che hai fatto oggi?’ non ha senso: lei risponde solo ‘portami via di qui’”.

Negli ultimi due mesi, gli incontri avvengono attraverso quella che chiamano ‘parete da contatto’, in plexiglass, dotata di due fori in cui si inseriscono le braccia: “Io l’abbraccio così, ma lei non ha la forza di fare lo stesso e soprattutto non capisce, perché torna a chiedermi di portarla in giardino, cosa che si poteva fare prima e non più adesso. Ormai sono venti giorni che non vado più, perché abbiamo capito che questo tipo di incontro le fa più male che bene: arrivava tutta felice, si ritrovava quel muro invisibile, si innervosiva e chiedeva di essere riportata in camera. Questo è ancora più frustrante. Io, come tanti, ho fatto le cose più folli per alleviare quel disagio, tipo schiacciare al massimo il plexiglass per avvicinarmi a lei con la fronte…”.

A Dario Francolino, come a molti altri parenti, è precluso l’incontro in presenza con la sua mamma nonostante lei abbia avuto il Covid, sia guarita e sia stata anche vaccinata con entrambe le dosi: “Malgrado tutto ciò, io continuo a poterla vedere solo attraverso la parete di plastica, perché il direttore di quella struttura ha deciso così: finché non arriva l’ordinanza nazionale, il decreto legislativo, il decreto della Regione e della Asl, continuerà a non permettermi di vederla”, afferma, “Ma io mia madre la porterò via da là, anche perché c’è più rischio di contagio (ammesso che rischio ci sia) a fare entrare in struttura il personale non vaccinato. Si tratta di umanità. La gente muore sola senza nemmeno il conforto di un prete, perché anche la Chiesa è ferma in questo, nemmeno il conforto religioso arriva in tempo. Tenga conto che dentro la Rsa c’era una chiesa che è rimasta chiusa, sono quindici mesi ormai. Mia madre era molto cattolica, era l’unico conforto e le abbiamo tolto anche quello. È tutto spietato”. La malattia della signora Pina non le consente di comprendere la situazione: “Quello che avverte lei è il lungo distacco, l’assenza di fisicità, perché era abituata a vedermi in presenza, al mio abbraccio” spiega ancora Dario che ammette di dirle piccole bugie pur di alleviare la sua sofferenza: “Ogni volta che la vedo le dico ‘domani ti porto a casa’ oppure ‘domani andiamo a mangiare una pizza’, perché tanto so che se ne dimentica, ma in quel momento almeno le do una piccola gioia. Ho anche falsificato il mio compleanno: ho fatto arrivare una torta in struttura e io l’ho mangiata dall’altra parte della parete del contatto. È  stata una festa di compleanno atipica, meglio di niente. E poi le faccio arrivare anche dei regalini”.

Per la Festa della mamma, Dario Francolino non ha dubbi su cosa farebbe: “Le direi ‘ti voglio bene’. E poi ‘ti tirerò fuori da qui come tu hai fatto con me’. E siccome quando mi sentivo giù mi comprava un biglietto e mi faceva viaggiare, farei stesso per lei, la porterei al mare, a Tropea, nella sua Calabria. Lei ama tanto il mare. Vorrei dirle: “Ti porto al mare mamma, andiamo a farci una nuotata”.

“Se potessi le direi ‘ti amo’: da qualche parte nella sua testa troverebbe un ancoraggio”

Raggiungiamo al telefono Desiree Pantaleoni appena uscita dal suo primo incontro con mamma Giuseppina, di 94 anni, ricoverata in una Rsa bolognese da novembre 2019 con una grave forma di demenza. Non la vedeva da ottobre. “È stato straziante” ci dice commossa: “È avvenuto all’aperto, attraverso il plexiglass. L’ho fatta coprire, perché lei è anche agorafobica ed era infastidita dal vento. Allora l’operatore gentilissimo l’ha portata dentro e mi ha permesso di guardarla a distanza: lo ha fatto anche lei, mi ha sorriso e ha fatto un gesto che voleva dire ‘vieni!’, ma io non ho potuto. Lo strazio è non poter rispondere alla loro richiesta di contatto. Loro sono vaccinati, immuni perché hanno avuto il Covid, perché impedircelo?”.

“In questo Paese si accetta che gli stranieri entrino con un tampone veloce e non si permette a noi di abbracciare i nostri genitori”, osserva: “Questo virus ha devastato il senso di ogni umanità. I nostri cari hanno bisogno dei rapporti famigliari, noi siamo la loro cura. La responsabilità è di un governo che non si prende responsabilità; chi gestisce le strutture si tutela e chiude. Per loro i nostri cari che non sono più produttivi non contano niente e noi con loro. Un mondo che non rispetta le persone anziane e la famiglia non ha futuro”. Anche per Desiree è stato un anno fatto di videochiamate, utili sì, ma fino a un certo punto: “Sono persone affette da demenze e patologie importanti con le quali è difficile comunicare”, aggiunge: “Il dialogo attraverso un telefonino per un anziano che non vede, che sente poco, che ha un problema di comunicazione e ha la demenza è una tragedia. A volte mi riconosce e accarezza il telefono. È terribile, anche per l’operatore che le sta accanto. Mia madre non ha il polso della situazione, non capisce perché io non possa andare a trovarla, sente solo di essere privata della mia presenza della quale mi accusa. Subisce e non capisce”.

“Senza mia madre non sarà una Festa” conclude Desiree: “Se potessi le direi ‘Ti amo’, credo che servirebbe, da qualche parte nella sua testa troverebbe un ancoraggio”.

“Mia madre si è sacrificata per tutta una vita, ora tocca a noi dimostrarle la nostra gratitudine”

Antonio Burattini, presidente del Comitato Anchise costituito allo scopo di garantire e vigilare sul diritto alla salute, all’assistenza e alla socialità degli ospiti nelle Rsa e Rsd (residenze sanitarie per disabili), è figlio di Rosalia che il 26 aprile scorso ha compiuto 90 anni. Ha perso l’uso delle gambe ed è ricoverata in una Rsa dal 2017. A marzo dello scorso anno si trovava nella struttura ‘Madonna del Rosario’ di Civitavecchia, chiusa appena scoppiata la pandemia. Lì, il 9 marzo, avvenne il decesso del primo ospite. Da lì, l’inizio di un’esperienza complicatissima: “Solo tre giorni dopo quel decesso hanno iniziato a fare i primi tamponi esclusivamente agli ospiti che erano stati in contatto con la persona scomparsa, senza monitorare il personale addetto” racconta: “Così è scoppiato il focolaio con 46 persone su 55 positive, tra cui anche mia madre che al telefono ci diceva che non capiva cosa stesse succedendo, perché non l’aiutavano più ad alzarsi dal letto in cui è rimasta da 5 marzo al fine aprile anche perché non c’era personale, erano tutti contagiati”.

Oggi gli incontri avvengono attraverso una finestra della struttura, a cui si accede da un terrazzo, e il colloquio è tramite interfono: “Lei sta dentro, noi fuori e abbiamo quindici minuti di tempo per parlare”, commenta ancora Antonio, arrabbiato per una situazione attenzionata anche alla Procura mediante esposti e al Presidente della Repubblica a quello del Consiglio, ai ministri della Salute e della Disabilità con lettere e richieste. “Per me sarà una Festa della mamma brutta, non poterla riabbracciare è un dramma”, confida: “Io sono nato il giorno in cui è stata istituita la Festa della mamma, per me ha una doppia valenza. Se potessi le direi di non preoccuparsi, che prima o poi torneremo ad abbracciarci come facevamo prima, tutti i giorni. Da quando mia madre è ricoverata, prima che scoppiasse tutto questo, non c’è mai stato un giorno in cui io e mia sorella non siamo andati a trovarla. È stata sarta prima e contadina poi, si è sacrificata per tutta una vita, ora tocca a noi dimostrarle la nostra gratitudine”.

Infine, Antonio rivolge un pensiero a chi resta ancora troppo ai margini delle attenzioni delle istituzioni: “Non dimentichiamo che ci sono tantissime persone ricoverate che non hanno parenti e anche giovani disabili con genitori anziani che hanno una sola enorme preoccupazione: quella di non sapere che futuro avranno i loro figli quando non ci saranno più”.

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