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Giovedì, 28 Marzo 2024

Alessandro Rovellini

Direttore responsabile

A 91 anni Gianni Clerici è morto troppo giovane

In fondo nessuno si inventa niente. Al massimo, le cose cambiano forma, s'ammodernano e diventano più appuntite. Oppure degradano e perdono tutto il loro splendore originario. Le telecronache di Gianni Clerici erano così magnificamente eleganti da essere le più moderne di tutte. Togliete le immagini a Tele+; lasciate solo l'audio. La voce di Clerici e quella di Rino Tommasi. Wimbledon diventa così un podcast di 7 turni, ops, 7 puntate. 30 anni d'anticipo rispetto a Spotify. Sì perché c'è di tutto: il pathos, i numeri, le classifiche, il conduttore quadrato che sciorina dati e statistiche. Clerici, invece, disserta su ciò che è umore o poesia sugli spalti. Alla fine, il gioco è solo un pretesto. Quello che il lariano racconta è la straordinaria sfida tra 2 atleti che si immergono in tattiche, fatica, gioia, esaltazione e paura per una maledetta pallina. Pallacorda, un tempo. Ma un nome del genere ricorda frivolezze e nobiltà. Il tennis moderno, invece, è scudisciate e dolore. Ed entrare nella testa dei giocatori, intuire cosa pensano e perché fanno certe scelte, è un'arte. 

Aldo Grasso ha scritto che Clerici non si vergognava della sua cultura. Non poteva farlo davvero. Perché oltre a saperne di tennis, era anche ottimo romanziere. Australia Felix (Fandango), tanto per dirne una. "Uno scrittore prestato allo sport", lo dipingeva Calvino. Lui si definiva, ironicamente, 'scriba'. Alla fine tutti i premi sono stati semplice contorno. La Hall of Fame di Newport il più prestigioso. Clerici discuteva di tennis potendosi permettere di parlare di tutto. 'Dottor Divago' lo scherniva Tommasi. Ma non erano divagazioni. Erano uno stile e un genere letterario a sè. Che sono rimasti sepolti dall'ammodernamento cieco di un media, la tv, che ha cercato di togliersi il peso degli anni. Con risultati scarsi. Tutti sanno che la mannaia è arrivata nel 2011 con l'obbligo, da parte di Sky, di seguire i match da Milano e non da Londra. Oggi i telecronisti urlacchiano, si inventano nomignoli, vedono azione dove azione non c'è. Il click baiting vocale c'è, eccome. Questa è la differenza abissale. La forza di Clerici erano le pause, i silenzi, i 'mumble mumble'; gli "aspetta, mi ricordo quando... ". Wimbledon 2003: prima finale di Mark Philippousis. Lui ti incuriosisce parlando sottovoce e lasciando la porta socchiusa. E ti fa comprendere perché quel tennista australiano ha un nome greco; perché ha quegli sguardi. Tu ti avvicini e lo ascolti. Magari ti perdi il punteggio, ma sai perché si fa l'inchino in un certo modo. Perché è arrivata la duchessa di York e non la regina. Due anni dopo, perché no, dai, quel completo da tamarro di Nadal è una coltellata agli occhi dei puristi. Il match non è solo randellate da fondo o smorzate, è anche tutto quello che gli sta intorno. E Federer che scende in campo in cardigan è il primo 15-0.

Clerici sapeva tanto, troppo, rispetto alla media degli altri. Dopo le telecronache ha continuato a scrivere per Repubblica, in pezzulli divertenti e colorati, ma era il suo eloquio a valere il prezzo del biglietto. Ogni tanto intervistato qua e là, ha dispensato la sua infinita modernità fino all'ultimo. Ce lo siamo goduti 91 anni, in questa Terra. Troppo poco. Dietro non c'è nulla. Forse, come si ritira il 4 di Zanetti o il 6 di Baresi, andrebbe ritirato il suo microfono. Nella Hall of Fame, vicino a lui, ci sta benissimo. Buone 'semirighe', lassù, Gianni.

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