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Sabato, 20 Aprile 2024

Alessandro Rovellini

Direttore responsabile

Mi ricordo ogni stramaledetto istante

“C'è un caso di covid-19 a Codogno”. Sono le 4 di mattina di 2 anni fa. La mia compagna mi scuote mentre sono in dormiveglia, io abbozzo e le dico qualcosa del tipo “sì, va beh, sarà una cazzata”. Guardo la luce blu tremolante del cellulare, avverto la redazione tanto per. “Ohi occhio coronavirus a Codogno”. Una roba del genere. Forse ci metto anche una faccina che ride o qualche altra emoji idiota. Torno a dormire. Che sarà mai?

Codogno è a 16 minuti da casa mia. Ci ho vissuto per 4 anni. È dove vive mio figlio. È la classica cittadina della Bassa lombarda, fulcro di tessuto agricolo, operosa, silenziosa, totalmente anonima. Qualche fabbrica, villette, distese di mais e frumento, un centro ordinato. Di solito ci si passa per caso, o meglio, non ci si passa per niente. All’improvviso diventa il posto più importante del mondo. Il primo vero caso europeo di Sars-Cov-2 non viene sequenziato in un’affollata lounge dell’aeroporto di Francoforte o a Heathrow. Ma a Codogno, nel rutinario nulla padano. In un turbinio insensato di whatsapp e chiamate, non ci vogliono 6 gradi di separazione per arrivare a Mattia, il paziente 1 allora in fin di vita. Conosciamo uno dei suoi migliori amici, il presunto paziente 0 asintomatico dal quale sarebbe iniziato tutto. Lo intervistiamo. È stato prelevato nel cuore della notte da alcuni funzionari ministeriali in modalità spy story, e portato al Sacco di Milano. Verrà rivoltato come un calzino. Non verrà mai provato in alcun modo che abbia contratto il covid. Di fatto, a oggi, 22 febbraio 2022, il paziente 0 rimane senza volto.

Ma siamo entrati in un mondo parallelo. Ogni notizia, ogni aggiornamento, sono coltellate allo stomaco di timore e tensione. Ricordo ogni stramaledetto istante di quei giorni. Ricordo la confusione, la paura, il delirio. Ricordo il sudore freddo al primo pizzicore in gola. Ricordo di aver detto “ok, ci siamo” al primo starnuto. Ricordo di aver pagato un prezzo osceno per un pulsiossimetro. Ricordo di aver igienizzato le suole delle scarpe, le chiavi, il portafogli, la cover del cellulare, 3, 4, 5 volte al giorno, con maniacale pazzia. Mi sono sentito ridicolo, impaurito e stucchevole. Ricordo le sirene delle ambulanze. Quel suono lungo e violento, incessante, ora dopo ora, di giorno e di notte. Prima un morto, poi un altro morto, poi ancora un altro. Come i cerchi di un sasso nello stagno che lentamente, da lontano, arrivano a colpire conoscenti, amici, parenti, genitori. I tamponi impiegano intere giornate ad avere un risultato. Prima sono solo anziani, poi sono persone di mezza età, poi 40enni in buona salute. Familiarizziamo con i nomi dei virologi che iniziano a essere invitati in tv, c’è chi minimizza e chi ingrandisce numeri esponenziali campati per aria. Tutti hanno un minimo comune denominatore: sbagliano. Perchè, semplicemente, una cosa così non l’ha mai vissuta nessuno. A Codogno, e in altri Comuni lodigiani, le camionette dei militari bloccano gli accessi con i check-point. È la prima serratissima zona rossa. Scene da Seconda guerra mondiale; scene che, in questi giorni, tristemente vediamo in Donbass.

Se guardo indietro vedo due anni di passi tracciati dalla scienza e dai vaccini. Se guardo avanti, però, ora c'è un futuro tiepido, perchè molti Paesi sono rimasti chiusi. E non riapriranno a breve. Il covid è stato spartiacque, mannaia, lacerazione. Mentre i bollettini rassicurano di rapide discese di contagi, centinaia di vite al giorno, non tabelle ma nomi e cognomi, in Italia si spengono ancora oggi. Ricordo tutto di quei giorni perchè, in parte, sono ancora il presente. E la cicatrice di angoscia gelida di chi li ha vissuti non scomparirà mai.

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