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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Coronavirus, un progetto social per raccontare il lockdown: “Così abbiamo raccolto le emozioni della gente”

Intervista a Carolina Stamerra Grassi, coautrice di ‘Downthere’, un progetto di “mappatura emotiva” nato per raccogliere varie interviste durante il lockdown e avere così un quadro di ciò che l’isolamento ha significato per ciascuno

E’ ancora presto per dire in che termini l’isolamento vissuto nel pieno dell’emergenza coronavirus abbia segnato ognuno di noi dentro, nel profondo. E’ trascorso troppo poco tempo dalla rivoluzione a cui milioni vite hanno dovuto adeguarsi per contrastare la diffusione di un virus pericoloso quanto l’impotenza di saperlo contrastare, e probabilmente saranno solo le settimane, i mesi, forse addirittura gli anni a venire a raccontarci come e quanto le nostre esistenze siano state anche il risultato di quell’epoca sospesa tra fasi 1, 2, 3.

Ma durante questo periodo c’è stato chi ha intuito come le emozioni suscitate giorno per giorno dalla reclusione nelle proprie case meritassero di essere monitorate, registrate nella loro unicità via via che venivano sentite. E’ stato un gruppo di amici e colleghi, professionisti nel campo dello spettacolo, della comunicazione, dell’arte e dell’architettura, a pensare che quello, proprio quello era il momento giusto per creare un “archivio di pensieri, conversazioni ed esperienze, con persone provenienti da mondi diversi, che guardano il loro laggiù, per mappare scenari di futuri possibili”. Così ha preso forma ‘Downthere’, un progetto di “mappatura emotiva” nato su Instagram per raccogliere diverse interviste durante il lockdown e avere così un quadro di ciò che è stato e, per certi versi, di ciò che sarà.

Per conoscere come sia nata l’idea di un programma di questo tipo abbiamo intervistato Carolina Stamerra Grassi, direttrice creativa di programmi televisivi di intrattenimento e spettacoli musicali, coautrice di ‘Downthere’ insieme ad Anghela Alò, Francesca Benedetto, Federico Bernocchi, Stefano Govi e Simone Russo.

Com’è andata l’idea del progetto Downthere? Quando vi siete accorti che la situazione segnata dall’emergenza coronavirus andava monitorata nella sua evoluzione?

Molti di noi lavorano all’estero, per cui da subito abbiamo avuto modo di sapere quanto stava accadendo in Cina avvertendo che sarebbe successo anche qui da noi. Il 7 marzo, con l’imposizione delle prime restrizioni qui in Lombardia e poi in tutta Italia, abbiamo intuito che il periodo sarebbe durato molto più di quanto annunciato in un primo momento e immediatamente c’è stato un senso comune di “impotenza” tra noi che lavoriamo nel mondo dell’intrattenimento, dello spettacolo, dell’architettura: mentre i musicisti si organizzavano realizzando, per esempio, dirette streaming, noi progettisti ci sentivamo un po’ inutili. Per questo abbiamo deciso di monitorare il momento cercando di metterci in contatto con le nostre conoscenze all’estero e osservare come le persone nelle varie nazioni approcciassero all’evoluzione della situazione che diventava critica in tempi diversi. A ognuno abbiamo chiesto di mandarci un video di un minuto che mostrasse cosa vedevano dalla loro finestra e via via, davanti al materiale che prendeva sempre più forma, abbiamo deciso di iniziare a fare delle interviste che fossero descrizioni delle immagini registrate nei filmati.

E oggi il materiale si presenta corposo… 

Al momento abbiamo 77 interviste, arriveremo a 80 per cocluderlo.

Quello che emerge dal progetto viene definito come una “mappatura emotiva”. Oggi, effettivamente, ritenete di aver raggiunto un quadro eterogeneo di quelle che sono state le svariate possibili emozioni avvertite dalla gente durante il lockdown?

Sì, ed è incredibile notare adesso la differenza tra le interviste realizzate all’inizio del lockdown e quelle successive. Le prime erano mosse da curiosità e incertezza; in quelle di metà aprile si percepiva grande paura anche per le tante vittime causate dal covid; poi, ancora, sconforto e, infine, speranza. E’ stato come un flusso continuo che ora, in questo momento di ‘fase 4’, per così dire, non ha ancora una guida che lo cataloghi: ci sentiamo sufficientemente liberi di tornare a vivere la nostra vita pur rispettando le regole sulle mascherine, sul distanziamento sociale, ma di fatto non ci si sente ancora del tutto sicuri.

Tra le interviste realizzate ce n’è una che vi ha colpito più delle altre?

Noi siamo in sei, quindi ognuno di noi ha avuto delle reazioni differenti rispetto ai soggetti intervistati ed è complicato individuarne una sola. Ma sì, ce ne sono di incredibili. E ci è anche capitato di commuoverci.  

E adesso che il lockdown è finito e con lui il monitoraggio delle emozioni delle persone nell’eccezionalità di una situazione così particolare, che evoluzione avrà il progetto ‘Downthere’?

Vogliamo creare un documentario e un’installazione multimediale che potrà essere fruita da tutti, ma non prima di un anno, perché oggi non siamo ancora preparati da un punto di vista emotivo. Vista la mole del materiale pensiamo possa essere suddiviso in episodi o in argomenti e diventare un prodotto seriale o magari interattivo, stiamo ragionando su una serie di sviluppi, sia dal punto di vista televisivo per renderlo documentario, sia dal punto di vista artistico per trasformarlo in una mostra.

Avete riscontrato un modo di vivere il lockdown in modo diverso tra coloro che lo hanno vissuto in Italia e chi si è trovato all’estero?

Sì, le differenze le abbiamo notate eccome. In Svezia, per esempio: lì il loro stile di vita è già segnato da un certo distanziamento sociale che è abitudine comune e dunque quella regola per loro non è stata pesante come per noi. L’Australia non è mai stata chiusa completamente; in America, ancora, ha prevalso la paura, maggiore in coloro che non erano dotati di una forte assicurazione sanitaria. Abbiamo intervistato una scrittrice italiana residente in America da 20 anni che ha un figlio disabile: se si fosse ammalato il ragazzo non avrebbe potuto essere curato. In un primo tempo il senso comune ci ha lasciato immaginare che il coronavirus fosse una specie di ‘livella’ che ci rendesse tutti uguali, come nella poesia di Totò, invece abbiamo scoperto col tempo che non è così, non è affatto un virus "democratico". Ci sono persone che sono sopravvissute per le loro possibilità e c’è chi, al contrario, ha dovuto vivere tutto questo in modo diverso. E noi lo abbiamo avvertito anche grazie a questo progetto. 

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