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Giovedì, 28 Marzo 2024
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“Così, da italiano a Bruxelles, ho aiutato il mio Paese quando non c’erano neanche le mascherine”

Il racconto di Marco Panigalli, in prima linea nella Commissione Ue per coordinare i primi aiuti all'Italia allo scoppio della pandemia: "Un'esperienza drammatica che migliorerà la preparazione per le future emergenze"

I contagi che si diffondono a macchia d’olio, la scomparsa dalla circolazione di mascherine e gel disinfettanti, per non parlare dei blocchi alle esportazioni e delle liti interne agli Stati Ue. A un anno dai primi casi di Covid-19 in Lombardia e Veneto, l’Europa non si è ancora lasciata alle spalle la pandemia. Ma di certo il metodo di lavoro è cambiato molto rispetto a dodici mesi fa quando, al primo tentativo di Bruxelles di attivare un appalto congiunto per la fornitura di mascherine e articoli di protezione, “risposero positivamente solo la Germania e la Romania”. A ricordarlo è Marco Panigalli, funzionario Ue che lavora alla Direzione generale della protezione civile e dell’aiuto umanitario della Commissione europea. Panigalli si è trovato in prima linea nel momento di massima pressione sulle istituzioni Ue. In questa intervista racconta come si è attivata la macchina della solidarietà europea in una crisi senza precedenti. 

Come funzionario della Commissione europea e come cittadino italiano, come ricorda i primi giorni dopo i contagi a Codogno e Vo’ Euganeo?
Nei giorni dei primi contagi, che arrivarono durante il periodo delle vacanze di Carnevale, io mi trovavo in Italia e ho vissuto quella fase come un normale cittadino italiano. Prima di allora si pensava che l’emergenza fosse limitata a Wuhan e non dovesse mai arrivare in Europa, ma all’improvviso cambiò tutto. Sono rientrato subito a Bruxelles, dove i colleghi si erano immediatamente attivati con riunioni giornaliere per seguire quella che inizialmente era un’epidemia e poi si è trasformata in una pandemia.

Tutta Europa si è trovata impreparata e sprovvista dei dispositivi di protezione, come mascherine e guanti. C’è stata una sottovalutazione del rischio? Qual è stata la prima reazione?
Tutti si sono fatti trovare impreparati perché questa crisi ha avuto una portata imprevedibile. Quello che la gente non sa è che la Commissione europea, con l’attuale legislazione sulla protezione civile, non può fare appalti. Li possono fare solo gli Stati membri e poi noi finanziamo le spese con delle sovvenzioni al 100%. Lo strumento con il quale siamo intervenuti, rescEU, era nato solo l’anno prima, nel 2019, e doveva servire come ultima spiaggia per quei soli casi in cui la capacità d’intervento nazionale e i mezzi già a disposizione della protezione civile europea si fossero rivelati insufficienti. L’idea di creare questo terzo livello di aiuti, come una rete di salvataggio, è nata all’indomani degli incendi boschivi in Svezia nel 2018. Il ragionamento è stato questo: se ci fossero stati contemporaneamente incendi nel Nord e nel Sud Europa, con i mezzi a disposizione, non ci sarebbero state le capacità sufficienti per affrontare entrambe le crisi nello stesso momento. Di qui è nato lo strumento rescEU. Le tre aree di intervento sulle quali ci concentravamo prima della pandemia erano appunto gli incendi boschivi, ma anche la capacità medica e le eventuali emergenze chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari. Quando è scoppiata la pandemia, abbiamo adottato in tempi rapidi un atto legislativo che ci ha permesso di concentrarci su mascherine, guanti, occhialini e ventilatori polmonari per le terapie intensive negli ospedali. 

Che ruolo ha avuto questo intervento nel superamento della fase più critica della prima ondata?
Nessuno poteva immaginarsi che la situazione sarebbe stata così grave. Nei primi giorni le informazioni erano abbastanza contraddittorie, ma c’è stata da subito molta preoccupazione per le conseguenze che potesse avere la pandemia a livello locale ed europeo. La Direzione generale della protezione civile e dell’aiuto umanitario, la DG ECHO, alla quale io appartengo, organizzava delle riunioni giornaliere alle 9 del mattino con la partecipazione di diverse direzioni generali e servizi responsabili. In queste riunioni si faceva il punto della situazione, con aggiornamenti non solo sulla risposta alla pandemia, ma anche su altri aspetti importanti della crisi, come i rimpatri di cittadini europei da Paesi terzi. Poi siamo riusciti a costituire delle scorte di mascherine, guanti, occhialini di protezione e ventilatori polmonari. Queste forniture sono state inviate ai Paesi che ne hanno fatto richiesta. Per assisterci nel processo decisionale nell’attribuzione di questi materiali medici ai Paesi e alle regioni che ne avessero più bisogno in quel momento, abbiamo adottato una metodologia basata sui dati epidemiologici, quindi sulla popolazione, sul numero di decessi, sui pazienti in terapia intensiva. Un metodo sviluppato assieme alla Direzione generale della Sanità e al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie.

Anche l’Italia ha ricevuto questi aiuti?
L’Italia ha beneficiato in maniera importante del pacchetto di aiuti che abbiamo attivato. I primi materiali medici sono stati distribuiti proprio all’Italia, assieme alla Spagna e alla Croazia. In parallelo, è stato attivato un nuovo strumento per finanziare il trasporto di beni e materiali, ed il trasferimento di pazienti e staff medico tra Paesi europei e da o per i Paesi terzi. Un esempio concreto consiste nelle operazioni per l’Italia con il finanziamento al 100% delle spese di trasferimento di medici cubani e russi. Lo stesso vale per le squadre di personale medico albanese che hanno lavorato ad Ancona. Abbiamo finanziato anche il trasporto di pazienti italiani in Germania e in Austria. Sono tutti chiari esempi di solidarietà europea e anche extra-comunitaria. 

Quando in Italia si sono levati cori di proteste contro l'Europa accusata di non essersi mossa in tempo per aiutare il Paese all'inizio della pandemia, lei, da funzionario italiano della Commissione, che cosa ha provato?
Mi sono sentito coinvolto in prima linea perché mi occupavo e mi occupo tuttora della risposta e della preparazione alle emergenze. Come italiano e come europeo, ho provato una grande frustrazione. Non c’erano articoli di protezione a disposizione. C’erano enormi colli di bottiglia per avere questi strumenti e bisognava affrontare una dura concorrenza per averli. L’Europa, dopo la Cina, è stata la prima ad essere attaccata dal virus, ma poi c’è stata anche una competizione a livello mondiale nella corsa alle mascherine. C’era scarsa conoscenza e titubanza nello spendere milioni senza garanzie delle aziende, visto che la maggioranza degli articoli venivano dalla Cina o comunque da imprese lontane che non garantivano sulla qualità e sulla distribuzione. È stato un periodo estremamente difficile perché c’era molta confusione. 

All’inizio della pandemia, alcuni Stati - come la Germania - hanno imposto un blocco alle esportazioni di mascherine. La Commissione ha rimproverato la condotta del Governo di Berlino che poi è tornato sui suoi passi. Come mai l’Ue ha agito contro i blocchi?
Uno dei principi essenziali dell’Unione europea è quello della solidarietà, quindi si presume che in caso di emergenza ci debba essere solidarietà tra gli Stati membri. Tuttavia, bisogna anche pensare che la pandemia non è un terremoto o un’inondazione, un evento che avviene in un posto specifico delimitato territorialmente. In quei casi si può mobilitare la solidarietà in modo molto più efficace perché gli altri Paesi vengono in aiuto. La pandemia, ovviamente, non si ferma alle frontiere nazionali. La solidarietà è più complicata laddove c’è incertezza su quelle che saranno le fasi successive. È difficile anche biasimare uno Stato membro che, non disponendo di scorte di mascherine, ventilatori polmonari e quant’altro, si dimostri restio a volerle distribuire ad altri. Io immagino che un ruolo chiave l’abbia giocato anche l’opinione pubblica. Basti pensare ai discorsi che si fanno in una situazione di quel tipo: “Ma come, questa pandemia potrebbe arrivare da noi e voi distribuite mascherine ad altri quando magari ne avremo bisogno noi domani o dopodomani?”. La pandemia sembrava inarrestabile, quindi la solidarietà è stata molto difficile nella prima fase. In seguito i Governi si sono mostrati solidali nei confronti dell’Italia. 

Se potesse tornare indietro nel tempo, cosa farebbe di diverso rispetto a quanto è stato fatto? Il meccanismo Ue di risposta alle emergenze esce rafforzato da questa crisi?
La Commissione ha fatto il possibile, considerate le circostanze. C’è da dire che in un primo momento le opinioni erano molto divergenti, si sentiva anche nel mondo scientifico chi diceva che sarebbe stata solo un’influenza un po’ più forte e questo non ha aiutato. Il meccanismo di risposta alle crisi è stato rafforzato perché ne è uscito più consapevole e preparato per le prossime emergenze. Il coordinamento con gli Stati membri è stato complesso, ma il meccanismo di protezione civile europea è stato un punto fermo perché ha permesso un’azione coordinata e con una visione comune. La 'lezione' che abbiamo imparato nelle fasi preliminari della pandemia hanno permesso di identificare gli aspetti più critici del sistema. Adesso sono state messe in atto delle metodologie, ci sono centri di analisi, ma soprattutto c’è una maggiore consapevolezza che renderà ancora più importante il coordinamento europeo per questo tipo di crisi. È un’esperienza drammatica che servirà a gettare le basi per una migliore preparazione e risposta per le future emergenze.  

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