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Venerdì, 29 Marzo 2024
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Coronavirus, una ripartenza al buio: perché il monitoraggio previsto dal governo non funziona

Altro che rischio calcolato, l'affermazione di Conte è smentita dall'impossibilità stessa di calcolarlo: sulla riapertura il governo ha sbagliato tempi, non ha previsto controlli. Inoltre la fondazione Gimbe rileva anche incongruenze costituzionali

L’agognata ripartenza del Paese si concretizza con una giravolta normativa senza precedenti nella storia della Repubblica: il decreto legge 16 maggio 2020 n. 33 (art. 1, comma 16) demanda interamente alle Regioni la responsabilità del monitoraggio epidemiologico e delle conseguenti azioni, con il Ministero della Salute che rimane spettatore passivo da informare sui dati e sulle eventuali azioni intraprese dai governatori.

Secondo il nuovo decreto spetta infatti a ciascuna Regione in totale autonomia monitorare la situazione epidemiologica nel proprio territorio, valutare le condizioni di adeguatezza del proprio sistema sanitario e introdurre misure in deroga, ampliative o restrittive, rispetto a quelle nazionali.

"L’emergenza coronavirus – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – e soprattutto la gestione della fase 2 hanno accentuato il cortocircuito di competenze tra Governo e Regioni in tema di tutela della salute, oltre che la “competizione” tra Regioni su tempi e regole per la riapertura. Questo decentramento decisionale dimostra che, sulla tutela della salute, dalla leale collaborazione Stato-Regioni siamo passati ad una 'ritirata' del Governo al fine di prevenire conflitti con le Regioni".

Le analisi indipendenti condotte dalla Fondazione GIMBE sul nuovo Decreto rivelano incongruenze costituzionali, oltre che rischi non calcolabili di questo approccio.

I rilievi in primis sono normativi: la Costituzione affida allo Stato da un lato la legislazione esclusiva in materia di profilassi internazionale (art. 117 lett. q), dall’altro l'esercizio del potere sostitutivo a garanzia dell'interesse nazionale nel caso di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica (art. 120). Tuttavia, a fronte della più grave emergenza sanitaria della storia repubblicana, il Governo sin dall’inizio ha inspiegabilmente scelto di non esercitare i poteri conferiti dalla carta costituzionale. Inoltre la decisione di affidare alle Regioni una totale autonomia sul monitoraggio dell’epidemia e sulle conseguenti azioni da intraprendere avviene in un contesto molto incerto e poco rassicurante. 

Il primo Report di Monitoraggio della Fase 2” di cui abbiamo parlato ieri, dimostra che le Regioni non hanno fornito a livello centrale tutti i 21 indicatori previsti dal decreto del Ministero della Salute del 30 aprile scorso.

Perché il monitoraggio previsto dal governo non funziona

Nel dettaglio gli indicatori riguardano la capacità di monitoraggio delle Regioni che dovranno essere in grado per esempio di monitorare almeno il 60% dei casi sintomatici notificati, di quelli ricoverati in ospedale e terapia intensiva e anche minimo il 50% delle checklist somministrate settimanalmente alle Rsa. Il secondo gruppo di indicatori riguarda la capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti. Per esempio tra l’inizio dei sintomi e il tampone dovranno passare al massimo 3 giorni.

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Invece il primo report non riporta nessuno dei 12 indicatori di processo e nel “Quadro sintetico complessivo” dettaglia solo 5 dei 9 indicatori di risultato, peraltro non tutti coincidenti con quanto previsto dal Decreto, e quindi non utilizzabili per l’applicazione degli algoritmi e la definizione del livello di rischio.

Risulta evidente come a fronte di linee guida elaborate da Governo e Regioni per la riapertura delle attività produttive e sociali, non esista una strategia sanitaria nazionale ma solo orientamenti regionali variabili per bilanciare tutela della salute e rilancio dell’economia. In particolare:

  • Le Regioni hanno una propensione molto diversificata ad effettuare tamponi diagnostici: a fronte di una media nazionale di 61 per 100.000 abitanti al giorno, si va dai 17 della Puglia ai 166 della Valle D’Aosta. In assenza di uno standard nazionale, tali differenze condizionano l’implementazione della strategia delle 3T (testare, tracciare, trattare);
  • Un tale utilizzo dei tamponi sancisce il fallimento dell’app Immuni ancora prima della sua introduzione, visto che per definizione è uno strumento “tampone-dipendente”.
  • L’indagine siero-epidemiologica nazionale è partita in grande ritardo e non sappiamo quando saranno disponibili i risultati; le Regioni peraltro hanno adottato protocolli propri utilizzando test differenti.
  • Le modalità organizzative per la gestione territoriale dei casi positivi - Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA),  isolamento domiciliare in strutture dedicate, prescrivibilità dei tamponi da parte dei medici di famiglia, etc.), sono caratterizzate da immancabili diseguaglianze regionali.

Con queste premesse i DL 16 maggio 2020 n. 33 e DPCM 18 maggio 2020 concretizzano due ragionevoli certezze sulla fase 2:

  • Gli indicatori più affidabili per monitorare l’eventuale risalita della curva epidemica non possono che essere i ricoveri ospedalieri e l’occupazione delle terapie intensive, dati al tempo stesso tempestivi e affidabili in quanto raccolti dai flussi ospedalieri.
  • I risultati sul contenimento del contagio sono in larga misura affidati alle responsabilità individuali dei cittadini, attraverso il rispetto delle norme di distanziamento sociale e l’uso delle mascherine.

Se fino a qui la fondazione Gimbe mette in evidenza le lacune del metodo, molto più gravi sono le evidenze scientifiche che invece il governo stesso ha ignorato per riaprire il paese sulla spinta delle richieste del mondo produttivo.

È noto che l’impatto sulla curva dei contagi di qualsiasi intervento di allentamento del lockdown può essere misurato solo 14 giorni dopo il suo avvio: in altri termini, le conseguenze delle riaperture del 4 maggio possono essere valutate solo a partire dal 18 maggio e quelle del 18 maggio lo saranno non prima del 1° giugno. Dal 3 giugno, data in cui inizieremo a intravedere le conseguenze sulla curva epidemica delle riaperture del 18 maggio, il via libera alla mobilità interregionale e alla riapertura delle frontiere sancirà la libera circolazione su tutto il territorio nazionale anche dei soggetti contagiati.

"È evidente che le decisioni sulle riaperture – conclude Cartabellotta – hanno anteposto gli interessi economici del Paese alla tutela della salute". Risulta ancora più evidente come la dichiarazione del Premier Giuseppe Conte secondo cui si tratta di un rischio calcolato è smentita dall’impossibilità stessa di calcolarlo, perché la gestione e il monitoraggio dell’epidemia sono affidati a 21 diversi sistemi sanitari che decideranno in totale autonomia ampliamenti e restrizioni delle misure in base ad una situazione epidemiologica autocertificata.

La storia insegna che non è sano quando controllore e controllato coincidono.

coronavirus rischio regioni-2

Il grafico illustra il posizionamento delle Regioni in relazione alle medie nazionali di prevalenza e incremento percentuale dei casi (settimana 12 - 18 maggio)

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