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Martedì, 23 Aprile 2024
Il caso

"Finché è rimasta a Napoli la pizza era una schifezza, è migliorata a New York"

Dopo la contestata intervista al Financial Times, lo storico dell'alimentazione Alberto Grandi ribadisce il suo pensiero al Corsera: "La nostra cucina è frutto di contaminazioni. Nel dopoguerra si mangiava meglio in Belgio che in Italia"

"Finché è rimasta a Napoli la pizza è stata una grandissima schifezza". Parola di Alberto Grandi, storico dell'alimentazione e docente all'Università di Parma, nonché autore del libro 'Denominazione di origine inventata' (2018), da cui è nato anche un podcast di successo. Il suo cognome è finito su tutti i giornali dopo l'intervista rilasciata al Financial Times in cui il docente ha messo in discussione alcuni grandi classici della cucina italiana. Esponendo una teoria che per la maggior parte dei nostri connazionali risulta piuttosto indigesta: "La cucina tipica italiana è in verità più americana di quanto non sia italiana". 

L'esempio più clamoroso è quello della pizza. "I dischi di pasta con sopra alcuni ingredienti" esistono ovunque nella cultura mediterranea, ha sottolineato lo storico dell'alimentazione nell'articolo del Financial Times (che per inciso è stato scritto da un'italiana, Marianna Giusti, ed è assai ben documentato). Non solo. Secondo Grandi fino alla metà del secolo scorso la pizza si trovava solo in poche città del sud Italia ed era un alimento mangiato dalle classi sociali meno abbienti. Prova ne è il fatto che i soldati italo-americani spediti nella terra dei loro avi durante la Seconda guerra mondiale si stupivano del fatto che non ci fossero pizzerie nel Belpaese, comunicandolo con disappunto nelle proprie lettere alle famiglie. E il primo ristorante a servire esclusivamente pizza non aprì in Italia, ma a New York nel 1911. 

Il caso del parmigiano

Altro esempio: il parmigiano. Che sì, ha oltre mille anni di storia. Ma prima degli anni Sessanta veniva prodotto in forme da 10 kg (contro i 40 attuali) racchiuse da una crosta nera e aveva una consistenza diversa. Rispetto a quello che mangiamo oggi era più grasso e più morbido, tanto che, argomenta Grandi, "qualcuno diceva addirittura che un segno della qualità di questo formaggio era che colasse una goccia di latte quando veniva pressato". La ricetta originale del parmigiano reggiano l'avrebbe preservata solo il Wisconsin, grazie agli immigrati italiani dei primi anni del Novecento. La tesi di fondo dello storico dunque è che con le migrazioni di massa di fine Ottocento e inizio Novecento verso gli Stati Uniti la nostra cultura gastronomica si sia intrecciata con le abitudini culinarie di altri Paesi (Stati Uniti in testa). E che dunque il mito della nostra tradizione in cucina, e della nostra presunta superiorità, sia in realtà da rivedere.

"La pizza è migliorata a New York"

Com'era immaginabile l'intervista ha suscitato un polverone. Nulla a cui lo storico (definito "accademico marxista" dal Financial Times) non sia abituato. Raggiunto dal Corriere della Sera Grandi ha così ribadito ancora una volta il suo pensiero. "La cucina italiana, come la conosciamo oggi, è frutto di contaminazioni e del fatto che milioni di italiani sono andati in giro per il mondo e hanno imparato a cucinare scoprendo ingredienti nuovi". Il docente prende ad esempio l'immigrazione italiana in Belgio nel secondo dopoguerra. E non tenta di indorare la pillola. "È impensabile che gli italiani in quegli anni avessero qualcosa da insegnare ai belgi dal punto di vista gastronomico", anzi, "all'epoca si mangiava meglio in Belgio che in Italia, è inutile girarci intorno". Boom.

La pizza? Ecco un'altra bordata. Finché è rimasta a Napoli non era un granché, anzi "è stata una grandissima schifezza". Solo quando è arrivata a New York "si è riempita di prodotti nuovi e, in particolare, della salsa di pomodoro diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa". Insomma, il discorso è chiaro: il mito della cucina italiana sarebbe fondato su delle vere e proprie fake news e alcuni dei nostri classici - oggi intoccabili - sarebbero nati in tempi relativamente recenti grazie alla contaminazione con altre culture. Al Financial Times l'accademico ha spiegato che in Italia c'è un vero e proprio "gastronazionalismo", ma "i nostri nonni sapevano che si trattava di bugie. La loro tradizione era provare a non morire di fame".

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