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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Perché il numero di ricoverati in terapia intensiva è il campanello d'allarme vero: "Ecco le regioni a rischio"

"Non è la risacca della prima ondata, è la seconda ondata", dice Alessandro Vergallo, presidente degli anestesisti rianimatori ospedalieri, che invita a monitorare con la massima attenzione soprattutto "le regioni che non hanno affrontato l'onda pandemica iniziale"

Il dato che emerge con una certa chiarezza dagli ultimi bollettini nazionali quotidiani sulla diffusione del cibtagio è l'aumento dei ricoveri in terapia intensiva di pazienti positivi al Sars-Cov-2 e che hanno sviluppato sintomi di Covid-19. "I numeri delle persone in rianimazione ci dicono una cosa: nel giro di poco più di una settimana siamo passati da 200 a circa 450. Sono di fatto raddoppiati in questo arco di tempo. Il numero è relativamente basso, ma dimostra che non siamo di fronte ad una curva lineare, bensì ad un'iniziale curva esponenziale, questo è il rischio. Il rischio è alto soprattutto nelle regioni che non hanno affrontato l'onda pandemica iniziale". Parola di Alessandro Vergallo, presidente nazionale AAROI-EMAC, l'associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani-emergenza area critica, è intervenuto nella trasmissione "L'imprenditore e gli altri" su Cusano Italia Tv.

"Non è la risacca della prima ondata, è la seconda ondata"

"Questa non è la risacca della prima ondata, è una vera e propria seconda ondata - ha detto - per questo lanciamo il messaggio di tenere alta l'attenzione. Questa seconda ondata ha un culmine più basso come numeri solo perché si sono poste in atto nel frattempo tutte le misure di contenimento sociale. E' chiaro che con la ripresa c'era da attendersi un rialzo, ma questo non significa abbassare la guardia".

"Noi vediamo oggi una fotografia degli effetti di contagi avvenuti 2-3 settimane addietro - ha precisato Vergallo - Per questo dobbiamo cercare di immaginare in prospettiva quella che sarà la fotografia di oggi che noi vedremo fra 3 settimane". Sui posti in terapia intensiva, ha ricordato che in Italia c'erano 5000 posti in fase pre-pandemica, quelli che sono stati attivati sono stati effettivamente utilizzati nelle regioni più colpite. "Ci risulta siano stati implementati anche nel centro-sud, ma al sud in particolare non abbiamo contezza che ci sia stata un'effettiva implementazione proporzionalmente corrispondente alla densità di popolazione. L'obiettivo del governo era arrivare ad 8700 posti ai quali dovrebbero essere aggiunti circa 4000 di sub-intensiva che all'occorrenza possono essere trasformati, però stiamo parlando di un piano sulla carta che comporterà tempi molto lunghi".

Sulla carenza di anestesisti e rianimatori, spiega: "l'ultima novità riguarda un raddoppio delle borse di studio per la nostra specializzazione, ma i risultati li vedremo fra 5 anni. Se non si rende attrattiva sotto il profilo economico e sotto il profilo della sicurezza la nostra professione, quei 1600 posti di quest'anno accademico rischiamo di non riempirli". "Oggi in Italia - ricorda - abbiamo circa 18mila anestesisti e rianimatori, sono 10 anni che denunciamo la carenza di almeno 4mila unità. A queste carenze finora abbiamo fatto fronte con straordinari anche non pagati, con turni di lavoro massacranti. Hanno cominciato anche a piovere su di noi denunce penali e il governo aveva promesso che ci avrebbe protetto. C'è quel movimento di opinione, che dovendo cercare un colpevole a tutti i costi associato al negazionismo, ascriveva alle cure intensive la colpa di un esito infausto della malattia, a questo si sono associati avvocati anche di grido che hanno capitanato delle cause. Alla nostra associazione arrivano - conclude - telefonate di colleghi che sono convocati nottetempo nei posti di polizia per rendere dichiarazioni, che poi finiscono nel nulla, ma che stressano ulteriormente persone già provate per il lavoro massacrante che stanno svolgendo".

Perché il numero di ricoveri in terapia intensiva è il vero indicatore

Il numero di ricoverati in terapia intensiva è il campanello d'allarme più affidabile. All'interno di un discorso più ampio Matteo Villa di Ispi suggeriva già ad aprile la creazione di un 'indice di miglioramento regionale' basato sui ricoveri in terapia intensiva: a differenza del numero dei nuovi casi accertati, il numero dei pazienti ricoverati in terapia intensiva non risente del numero di tamponi effettuati o del cambiamento delle strategie di testing regionali.

Se è complicato analizzare e trarre indicazioni precise e uniformi partendo dal numero dei ricoveri totali in ospedale per Covid-9 nelle varie regioni, "i ricoveri in terapia intensiva - scriveva Villa - danno anche un’indicazione della gravità della situazione. L’assunto implicito qui è che un ricovero in terapia intensiva sia molto meno discrezionale di un ricovero ordinario, e che per questo esso possa fungere da buon indice della gravità dell’infezione nella popolazione regionale".  Il numero dei ricoveri in terapia intensiva potrebbe diventare il vero campanello d’allarme sulla base del quale le autorità preposte potrebbero prendere le decisioni sulla necessità di allentare le misure e le limitazioni o reintrodurne a un certo punto di più rigide e sarebbe anche "un indicatore conservativo: si accende rapidamente all’aumentare dei ricoveri, ma si spegne lentamente", perché in terapia intensiva i malati di Covid-19 sono spesso costretti a restarci per due settimane o venti giorni.

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