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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cosa sappiamo finora

Perché si parla di una terza dose di vaccino

L'epidemia rallenta, ma le varianti più trasmissibili continuano a preoccupare. L'ipotesi del ricorso a un terzo richiamo diventa sempre più probabile: quando e dove si farà?

L'ipotesi del ricorso a una terza dose di vaccino anti covid diventa sempre più concreta. Ne hanno parlato nei mesi scorsi scienziati ed esperti dell'Istituto superiore di sanità e del Comitato tecnico scientifico, lo ha confermato ieri sera il ministro della Salute Roberto Speranza, dando le prime informazioni sul "quando" e sul "dove" fare il terzo richiamo: è possibile che saranno i medici di base a preoccuparsi delle inoculazioni, a partire dal prossimo autunno. Perché se ne parla, soprattutto in una fase in cui la campagna vaccinale procede spedita e l'epidemia rallenta? Ad oggi circa un italiano su cinque ha completato il ciclo vaccinale contro Covid-19, per un totale di 11.871.163 persone totalmente coperte. Le dosi somministrate sono quasi 34 milioni e mezzo, su 36.702.939 farmaci consegnati. La terza dose di vaccino, nelle ipotesi degli esperti, sarebbe necessaria per aumentare la protezione contro le nuove varianti del coronavirus Sars-CoV-2.

Terza dose di vaccino dai medici di base: cosa sappiamo finora

"In questo momento - ha spiegato il ministro Speranza a Che tempo che fa - non abbiamo certezze assolute, ma tutti i nostri scienziati ci dicono che sarà molto probabile dover ricorrere ad una terza dose come richiamo necessario, eventualmente potranno esserci modifiche dei vaccini per poter coprire meglio alcune varianti. Bisognerà dunque passare da una fase straordinaria ad una fase ordinaria e penso che questa nuova ordinarietà possa essere affidata alla nostra straordinaria rete di medici di medicina generale. Io ho 42 anni, dopo il 3 giugno potrò anche io avere il vaccino. Ho scelto di vaccinarmi presso il mio medico di famiglia e credo sia giusto", ha concluso il ministro.

"È ragionevole che una terza dose di vaccino debba essere fatta", ha spiegato nei giorni scorsi il coordinatore del Comitato tecnico scientifico, Franco Locatelli, nel corso di un'audizione in Senato. Sì, ma quando? "Non è compiutamente stimabile quando dovrà essere somministrata e l'incertezza è legata al fatto che i periodi di osservazione sono ancora limitati - aveva spiegato l'esperto -. Si valuta, tuttavia, dai dieci mesi in su, perché è questo il periodo nel quale dovrebbe mantenersi la protezione da Sars-CoV-2 ma solo il tempo ci dirà se potrà essere prolungato ulteriormente". Insomma, per ora ne sappiamo ancora troppo poco, soprattutto perché oggi abbiamo dati su vaccini che hanno una storia di nove mesi, essendo arrivati a novembre-dicembre del 2020. Gli studi che abbiamo sulla durata della copertura dei farmaci anti covid sono per forza di cose limitati. Certo è che se il richiamo si rendesse necessario già dopo dieci mesi, i tempi sarebbero abbastanza stretti. In sostanza, da novembre si dovrebbe ripartire di nuovo con la vaccinazione dei sanitari e poi, a seguire, tutte le altre categorie.

Terzo richiamo Pfizer per chi si è vaccinato con AstraZeneca?

Ad oggi non è chiaro neppure se chi si è vaccinato (o si vaccinerà) con AstraZeneca riceverà per l'eventuale terzo richiamo il farmaco Comirnaty di Pfizer-BioNTech, ma dal momento che l'Ue non ha rinnovato il contratto con la multinazionale anglo-svedese tutto lascia pensare che sarà proprio così. Quanto al vaccino monodose Johnson&Johnson, il coordinatore del Cts Locatelli ha sottolineato che al momento non c'è nessuna evidenza che serva una seconda dose, perlomeno in tempi brevi. "Il vaccino J&J è basato su una sola dose perché gli studi presentati dall'azienda sono stati fatti su una popolazione che ha ricevuto una sola dose - ha evidenziato l'esperto -. È possibile che studi mirati a testare un eventuale vantaggio incrementale fornito dalla seconda dose possano dimostralo, ma al momento non sono disponibili".

Le varianti e l'efficacia dei vaccini

Fatto sta che le parole del ministro Speranza rafforzano l'ipotesi di una terza dose in autunno. Se da un lato l'epidemia rallenta, dall'altro le varianti più trasmissibili continuano a preoccupare: da qui la necessità di un terzo richiamo per accrescere la protezione contro le mutazioni del covid. Facciamo chiarezza. Il virus muta di continuo ed è normale che un certo numero di varianti finisca sotto osservazione, ma il possibile emergere di mutanti più pericolosi, fa notare l'Organizzazione mondiale della sanità, "introduce ulteriori incognite come il potenziale di fuga immunitaria e il modo in cui questi cambiamenti nel virus possono influenzare l'epidemiologia globale". Sono molte le varianti registrate da quando Covid-19 ha fatto la sua comparsa. Quelle che in particolare, e da subito, hanno destato maggiori preoccupazioni sono tre: l'inglese, la sudafricana e la brasiliana. A queste si è poi affiancata la variante indiana e negli ultimi giorni desta preoccupazione anche quella vietnamita. Nel nostro Paese resta stabile la dominanza della variante inglese, pari all'88% dei casi. È al 7,3% quella brasiliana (in lieve aumento), mentre la sudafricana rimane stabile, l'indiana è pari all'1% dei casi e la nigeriana è allo 0,8%. In tutte le regioni è dominante la variante inglese, secondo i dati della nuova indagine dell'Istituto superiore di Sanità, insieme ai laboratori regionali e alla Fondazione Bruno Kessler, che fotografano la situazione al 18 maggio.

Quella inglese è la prima variante ad aver allarmato la comunità scientifica, a causa delle numerose alterazioni a livello genetico che la caratterizzano. Si chiama B.1.1.7 e, secondo gli scienziati, ha avuto origine nel sud est dell'Inghilterra a settembre. Si è diffusa molto in fretta da novembre in poi. Le alterazioni che caratterizzano questa variante sarebbero almeno ventitré, quattordici delle quali localizzate sulla proteina spike, cioè la "chiave" d'ingresso del virus nella cellula. Stando alle osservazioni degli studiosi, questa variante presenta maggiori capacità di legarsi al recettore ACE-2 umano e pertanto rende più semplice la propagazione del virus. I primi dati indicano che probabilmente è più contagiosa. Il ministero della Salute ricorda che la variante "ha dimostrato di avere una maggiore trasmissibilità rispetto alle varianti circolanti in precedenza (trasmissibilità superiore del 37% rispetto ai ceppi non varianti, con una grande incertezza statistica, tra il 18% e il 60%). La maggiore trasmissibilità di questa variante si traduce in un maggior numero assoluto di infezioni, determinando così un aumento del numero di casi gravi". Sempre il ministero della Salute precisa che i primi dati "confermano che tutti i vaccini attualmente disponibili in Italia sono efficaci contro la variante inglese del nuovo coronavirus. Sono in corso studi per confermare l'efficacia dei vaccini sulle altre varianti".

La sudafricana è la versione "501.V2" di Sars-CoV-2, individuata ad ottobre. A metà novembre, "501.V2" rappresentava il 90% dei genomi sequenziati dagli scienziati sudafricani. Per il ministero della Salute i dati preliminari "indicano che anche questa variante possa essere caratterizzata da maggiore trasmissibilità (50% più trasmissibile rispetto alle varianti circolanti precedentemente in Sudafrica), mentre al momento non è chiaro se provochi differenze nella gravità della malattia". Nel complesso, la variante conta ventuno mutazioni, nove delle quali concentrate nella proteina spike. "La variante che forse può avere un effetto parziale maggiore sull'efficacia dei vaccini è la variante sudafricana, che però in questo momento nel nostro territorio non sta quasi circolando, essendo allo 0,3%", ha detto il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza.

La brasiliana è la variante B.1.1.28 riscontrata più recentemente in un caso di reinfezione: un'infermiera 45enne si è riammalata con questa nuova variante cinque mesi dopo essersi ripresa da una precedente infezione causata da un ceppo più vecchio. Nella seconda infezione i sintomi della donna sono peggiorati. Questa variante contiene mutazioni preoccupanti: una in particolare cambierebbe la forma della proteina spike all'esterno del virus in un modo che potrebbe renderla meno riconoscibile al sistema immunitario, rendendo più difficile il compito degli anticorpi.

La variante indiana è stata scoperta ottobre nello stato di Maharashtra. Presenta due mutazioni, chiamate E484Q e L425R, e ora si trova nel 15-20% dei campioni sequenziati nel Paese. Si stanno conducendo studi per capire se sia più contagiosa o pericolosa della versione originale di Sars-CoV-2. Ha raggiunto rapidamente anche l'Europa, arrivando - fra gli altri - anche nel Regno Unito, in Belgio, in Germania e in Svizzera. Nel nostro Paese è stata individuata per la prima volta lo scorso 10 marzo a Firenze. La variante indiana potrebbe essere responsabile del 75% dei nuovi casi di Covid-19 nel Regno Unito, ha detto il ministro della Salute britannico Matt Hancock, sottolineando che gli ultimi dati indicano una crescita dei contagi nonostante la campagna vaccinale stia procedendo a un ritmo serrato. Esiste anche una variante nigeriana, la B.1.525, individuata per la prima volta in Nigeria e che si è poi diffusa anche negli Usa e in Europa, Italia compresa. Al momento non si hanno evidenze dirette di una maggiore trasmissibilità.

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